Nel mondo antico l’ospitalità e l’accoglienza erano considerati doveri inviolabili.
Nell’Odissea Ulisse, per l’ostilità di Poseidone, naufraga sulla terra dei Feaci dove, dopo l’incontro con Nausicaa, viene accolto in amicizia dal re Alcinoo che concederà all’eroe acheo una nave a disposizione per far ritorno a Itaca.
Ovidio, nel poema Metamorfosi, racconta la vicenda di Filemone e Bauci: i due anziani coniugi, uniti da un profondo amore, vengono ricompensati da Zeus per aver offerto un rifugio e un pasto, nonostante la loro povertà, a due viandanti qualsiasi che si rivelano essere gli dèi Zeus ed Ermes.
Il premio del giusto comportamento degli anziani coniugi consiste nella loro salvezza dall’inondazione del villaggio in cui abitavano e nella trasformazione della loro piccola dimora in uno splendido tempio; inoltre gli dèi esaudiscono il loro desiderio di morire, quando giungerà l’ora, nello stesso momento per non dover soffrire l’uno la mancanza dell’altra.
Le vicende letterarie menzionate mostrano il valore che gli antichi attribuivano al senso di ospitalità, un valore così fondamentale da costituire per il mondo classico il discrimine tra esseri civili e incivili.
Tuttavia, miti e narrazioni epiche appaiono racconti sfocati di fronte ai viaggi senza ritorno compiuti oggi dai migranti o agli approdi disumani in cui migliaia di persone, in fuga da guerre e persecuzioni, finiscono per restare intrappolate.
E’ il caso dell’isola greca di Lesbo dove, a seguito del discusso accordo UE-Turchia, firmato il 18 marzo 2016 nel complesso quadro della gestione della cosiddetta “crisi dei migranti”, è sorto il campo profughi di Moria.
Il campo, uno dei più grandi d’Europa, noto per il suo sovraffollamento e per le condizioni disumane che migliaia di richiedenti asilo hanno patito, è stato recentemente distrutto in conseguenza di incendi divampati in concomitanza con la decisione delle autorità greche di applicare la quarantena al campo, a seguito della scoperta del primo caso positivo al Covid-19.
Dopo il vasto incendio scoppiato lo scorso settembre, è sorto un altro campo, in prossimità di quello di Kara Tepe, gestito dall’UNHCR.
Per cercare di comprendere la portata di una simile emergenza umanitaria e fare il punto sulla gestione degli sfollati, rivolgiamo alcune domande ad Allegra Salvini, dottoressa in Scienze Politiche, che ha lavorato per una ONG proprio nel campo profughi di Moria. Allegra ha poi raccontato in modo lucido e significativo tale esperienza nel libro Cartoline da Lesbo, pubblicato nel 2019 (Edizioni Clichy). Attualmente lavora al Parlamento europeo per una deputata olandese dei Verdi.
Allegra, che cosa è accaduto a Lesbo dopo gli incendi che lo scorso settembre hanno ridotto in cenere Moria?
L’incendio di settembre era prevedibile: nel campo di Moria in questi ultimi anni sono divampati molti incendi, perché è un luogo esposto al vento, perciò le fiamme si espandono facilmente. Inoltre molte sono le cause che favoriscono il propagarsi di incendi all’interno del campo: basti pensare ai fuochi che le persone utilizzano per scaldarsi e per cucinare o ai materiali facilmente infiammabili presenti nel campo.
Dopo l’incendio, le persone sono state costrette a vivere per strada finché non è stato adibito, come nuovo campo Moria, un terreno accanto al campo di Kara Tepe. Questo nuovo campo, però, è sorto in una zona che è soggetta ad allagamenti ed è sprovvista di servizi igienici. La Commissione europea sta lavorando a un piano di aiuti, il cosiddetto Winterization, per rendere le condizioni del campo più vivibili e adeguate per affrontare l’inverno. Per adesso però le condizioni del campo rimangono molto precarie. Inoltre un recente articolo di Human Rights Watch ha svelato che il terreno su cui il nuovo campo è stato costruito era un ex poligono da tiro. I poligoni di tiro sono comunemente contaminati da piombo proveniente da munizioni, tuttavia, a quanto pare, le autorità greche non hanno condotto test completi di piombo o di bonifica del suolo prima di spostare i migranti sul sito nel settembre 2020.
Quali Paesi europei hanno accolto gli sfollati?
La Commissione europea ha chiesto e fatto attuare un rapido trasferimento per circa 400 minori non accompagnati da Lesbo alla terraferma greca.
In realtà alcune famiglie sono state accolte non dopo l’incendio di settembre, bensì a seguito dei fatti accaduti lo scorso marzo quando ci furono delle tensioni al confine fra Grecia e Turchia. Alle frontiere ci furono atti di violenza da parte della polizia greca dopo che la Turchia aveva aperto i propri confini ai richiedenti asilo, perciò le persone dalla Turchia erano entrate in Grecia. Il Presidente del Parlamento europeo Sassoli intervenne e si impegnò per far ricollocare 1600 minori e famiglie dalla Grecia in altri Paesi europei. Quindi, in questo contesto, ci sono stati dei Paesi, quali Belgio, Francia, Bulgaria Croazia, Finlandia, Germania e Italia, che hanno accolto dei minori dalla Grecia.
Il nuovo campo sorto accanto a quello di Kara Tepe, creato come una struttura di accoglienza temporanea, dove verso la fine dello scorso settembre sono stati ricollocati 7000 rifugiati del campo di Moria, si è dunque trasformato in una nuova prigione a cielo aperto?
Sì. Purtroppo al momento non ci sono oggettivi miglioramenti delle condizioni di vita nel campo. Le persone continuano a vivere in tende, senza servizi igienici; per lavarsi utilizzano secchielli che gli vengono forniti oppure si lavano direttamente in mare; spesso non possono spostarsi neanche per andare dal campo al centro della città di Mitilene. Lo Stato greco si è accordato per creare delle strutture chiuse permanenti in cui saranno inseriti i richiedenti asilo. Queste strutture probabilmente saranno pronte nell’estate-autunno 2021.
In questo difficile momento storico segnato dalla pandemia, è ancora possibile realizzare politiche di accoglienza che non prevedano forme di reclusione per i migranti ma favoriscano la loro protezione, mettendo in atto efficaci pratiche di sostegno e solidarietà da parte degli Stati membri dell’Unione europea?
C’è una politica europea migratoria che negli ultimi anni ha dettato le nuove regole su come l’UE si vorrà comportare nei confronti di chi arriva in maniera irregolare sul suolo europeo. Questa cornice non è positiva, perché si è tentato sempre più di esternalizzare le responsabilità, per cui l’UE fa sempre più affidamento su Stati terzi, come la Turchia, la Libia e la Tunisia, per contenere i flussi. Perciò il focus europeo, a livello di politiche, fondi e attenzioni mediatiche, è incentrato sull’esternalità dell’UE. Ciò comporta una problematica quando si arriva a parlare di diritto di asilo perché, se il compito dello Stato terzo è di trattenere le persone sul proprio territorio, significa che queste persone non riescono neanche ad arrivare sul territorio europeo per fare domanda di asilo, anche se tali persone avrebbero il diritto di avere l’opportunità di arrivare sul suolo europeo e di presentare una domanda di asilo che possa essere esaminata in modo efficiente. Di conseguenza il fenomeno migratorio continua a essere trattato secondo il metodo basato sugli Hotspots che, per sostenere Paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia, la Croazia, Malta e Cipro, in prima linea nell’affrontare le pressioni migratorie, crea realtà come quella di Lesbo per tenere al confine più estremo possibile la gestione del fenomeno migratorio. Inoltre, grandissimo problema è che non ci sono abbastanza canali legali per far arrivare regolarmente persone che poi inevitabilmente passano attraverso il sistema di asilo, non perché veramente sono ‘richiedenti asilo’, ma perché non hanno proprio alternative. Credo che questo tema sia di centrale importanza nel futuro delle politiche europee in materia di migrazione.
Il nuovo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, presentato dalla Commissione europea lo scorso 23 settembre, potrà incidere nello scongiurare il perpetuarsi di violazioni di diritti umani e nel garantire maggiore efficacia nelle procedure di asilo?
Purtroppo questo nuovo Patto aumenta le possibilità per varie categorie di richiedenti asilo di essere detenuti, perché pone l’accento sulla veloce esaminazione delle domande di asilo alla frontiera, quindi chi arriva a far domanda si trova chiuso in situazioni come quella di Moria, anche se dovrebbe essere solo una situazione temporanea. Il fatto di tenere le persone per tanto tempo in un campo, a causa del ritardo nella processazione delle domande di asilo, può essere interpretato come una strategia della deterrenza. Il nuovo patto rinforza questo approccio, perché pone l’attenzione a fare lo screening tra chi merita l’asilo e chi no. Coloro che non lo meritano vengono rimandati indietro attraverso un sistema di ‘rimpatri sponsorizzati’, una forma di ‘solidarietà’ fra gli Stati membri nell’accordarsi per rimandare nei Paesi di origine le persone che non hanno diritto all’asilo. Gli Stati possono mostrarsi solidali nei confronti degli altri Stati occupandosi del rimpatrio di un migrante la cui domanda di asilo non è stata considerata valida. Solidarietà al contrario, dico io, non ci uniamo nell’accogliere, ma nel respingere. Dunque, penso che la Commissione europea non abbia fatto un passo in avanti in materia di solidarietà ma si sia appiattita di fronte al volere degli Stati membri quindi del Consiglio, mantenendo di fatto il principio cardine del Regolamento di Dublino: “il Paese di primo ingresso” (è la regola per la quale chi arriva in un Paese europeo deve presentare la domanda di asilo in quel Paese senza potersi spostare finché non riceve la risposta alla propria domanda di asilo).
Puoi condividere con i lettori un ricordo vivido della tua esperienza di volontaria presso il campo di Moria?
Ciò che mi riaffiora alla memoria è soprattutto la rabbia percepita quando, il 22 aprile del 2018, mi sono ritrovata nella piazza centrale di Lesbo dove c’erano dei richiedenti asilo afghani, uomini, donne e bambini, che manifestavano pacificamente, a seguito della morte di un ragazzo afghano deceduto nel campo per negligenza dato che non era stato soccorso in tempo per un malore. Gli afghani chiedevano giustizia e denunciavano le loro condizioni di vita nel campo. Una domenica arrivò da Atene un gruppo neofascista di Alba dorata per far sgombrare i migranti afghani dalla piazza. Sono stata testimone delle aggressioni da parte di tali fascisti nei confronti degli afghani. Non avevo mai vissuto una situazione simile: insulti, molotov, sassi e bottiglie addosso ai richiedenti asilo che non hanno mai reagito agli attacchi. Ho visto in faccia la rabbia sociale: per queste persone i migranti erano solo un capro espiatorio. Questo ci fa capire che uno degli effetti più immediati di queste politiche migratorie europee è quello di polarizzare l’opinione pubblica: anziché creare sinergie tra comunità diverse, si creano capri espiatori che divengono facili bersagli da strumentalizzare.
Le future scelte politiche sul tema della migrazione saranno in grado di realizzare giuste pratiche di cooperazione dei singoli Paesi, tenendo conto anche dell’esperienza diretta di coloro che vivono o hanno vissuto, giorno dopo giorno, le vicende drammatiche dei migranti?
di Ilaria Lembo