Vitantonio Raso ha da poco pubblicato un libro di memorie (“La bomba umana” ed. Seneca) nel quale ripercorre tutta la sua vita, a partire dall’infanzia trascorsa in un tranquillo paesino del salernitano per giungere alle sue missioni di artificiere durante le quali ha convissuto con il pericolo rischiando, più di una volta, la vita. Il paesino del salernitano è Serre, ma Raso è di Persano, la borgata serrese che confina con il mio paese. Nel 1978 io ero spesso lì, attivo partecipante alla lotta dei contadini che avrebbero voluto mettere a coltura i terreni di un comprensorio militare allora sonnacchioso e in evidente smobilitazione. Da qualche decennio i cavalli “Persano” non si allevavano più, i carri armati a disposizione erano pochi, e l’attività prevalente tra i soldati erano estenuanti marce che poi ha raccontato un allora soldato di leva, l’attore Alessandro Haber. Raso però era lontano: si era arruolato giovanissimo nell’esercito, e cresciuto com’era in quell’ambiente, era stato destinato fare l’artificiere. Il caso ha voluto, siccome siamo coetanei, che molti miei amici fossero anche i suoi. Comunque l’8 maggio 1978 quando a Roma, a via Caetani, si scopre il cadavere di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse, Vitantonio Raso è lì mentre io spesso sono di “filone” a scuola per essere a Persano. Ed è con tenerezza che ci ritroviamo a raccontarci quel che allora vedemmo con i nostri occhi. Passiamo oltre le mie esperienze, poco oltre che buccoliche, e sentiamo il racconto di Vitantonio Raso, oggi placido pensionato ma che mezzo secolo fa era dove si faceva la storia. La foto della copertina del suo libro lo testimonia: lui è uno dei soldati con il “baschetto”.
Vito, cominciamo da quei 55 giorni…
Ero già intervenuto la mattina del 16 marzo in via Fani. Mi chiamarono perché qualche testimone aveva raccontato che gli assalitori prima di fuggire avevano gettato nelle macchine coinvolte nell’agguato degli oggetti. Si temeva che potessero essere ordigni. Da allora, il Ministro Cossiga, pretese che fosse richiesta la presenza di un artificiere in ogni occasione ci si fosse trovati di fronte a materiale proveniente dalle BR. Ed in effetti intervenni anche in più occasioni in via Licinio Calvo (dove furono rinvenute in tre momenti diverse le auto utilizzate dai brigatisti per la fuga, nda), in via Gradoli ed, infine, in via Caetani. Me ne occupai sempre io per il semplice motivo che in via Fani avevo lasciato le mie impronte…
Il 9 maggio mattina eri in ufficio quando…
Da premettere che io lavoravo in borghese mentre quella mattina mi ero recato in ufficio in divisa perché alle 11 mi sarei dovuto recare a colloquio dal mio superiore nel COMILITER, il Gen. Santovito, che aveva chiesto di parlarmi.
Come si evolsero gli eventi?
Ero in attesa di essere accompagnato in Piazza Ungheria (sede del COMILITER) quando in ufficio si presentarono i “ragazzi” della volante 23 della Polizia, che conoscevo benissimo e che di solito mi passavano a prendere per portarmi sui luoghi ove era necessario il mio intervento di artificiere.
E ti portarono in via Caetani…
Questo lo seppi solo al mio arrivo. Quando salii in macchina mi resi subito conto che la situazione era strana. In genere il capo equipaggio dell’auto che mi veniva a prelevare, mi dava le prime indicazioni sull’intervento che mi era richiesto. Insomma le classiche informazioni che a me servivano per iniziare a prepararmi. Quella mattina, però, non fu così. Nessuno apriva bocca e allora iniziai a fare domande: “Dove andiamo? Di che tipo di segnalazione si tratta?”. Ma le risposte erano vaghe tanto da farmi irritare e quasi prendermela con quei ragazzi che poi non c’entravano nulla. “Andiamo in centro… Ci hanno detto di portarti lì…
“Quanto tempo impiegate per arrivare a destinazione?
Non molto. Da Piazza San Giovanni in Laterano saranno 5-6 Km, non di più. Considerando che in genere procedevamo ad andatura elevata (e questo mi ha comportato anche 4 incidenti durante il servizio) potremmo averci impiegato un quarto d’ora venti minuti. Arrivammo su via delle Botteghe Oscure e ci fermammo all’imbocco di via Caetani. La situazione era tranquilla: non c’erano transennamenti o un blocco del traffico che facessero pensare ad un pericolo bomba. Il capo equipaggio mi fece scendere e mi indicò di avviarmi nella stradina dove mi stava aspettando un funzionario di Polizia che mi avrebbe dato le indicazioni del caso.
Chi era?
Mi si fece incontro un uomo che si presentò con un “Salve, sono il Commissario Federico Vito. Vito è il cognome…”. Al che a me venne spontaneo ricambiare la battuta con “Piacere. Vito Raso. Vito è il nome”.
Attorno alle 11.15, quindi, incontrasti il Commissario Vito? Cosa ti disse?
Anche lui fu molto vago. Mi disse che c’era da controllare la R4 perché era stata ricevuta una telefonata anonima e si riteneva che dentro potesse esserci una bomba. Al che io mi misi subito ad analizzare dall’esterno la vettura, facendo un giro di ispezione attorno all’auto e scrutando anche attraverso i finestrini. Nella parte anteriore notai subito qualcosa che rendeva pericolosa l’auto: oltre a della sabbia nera, dei bossoli esplosi erano posti sul tappetino anteriore sia dal lato guidatore che passeggero. Questa cosa mi allarmò e quindi usai molta accortezza nell’avvicinarsi. Dato che era un’auto che conoscevo molto bene, mio padre ne aveva posseduta una simile, iniziai a studiare una strategia per riuscire ad entrarvi con il minimo rischio. Mentre ero li che, sempre sotto il controllo del funzionario di Polizia, giravo attorno alla macchina si avvicinò una ragazza vestita in un modo che definirei “alternativo” che mi chiese a bruciapelo: “È vero che in quella macchina c’è il cadavere di Aldo Moro?”. Cercai di mantenere la calma per evitare di mandarla a quel paese anche perché, conoscendo bene il bagagliaio e sapendo che Moro era di statura non certo piccola, non avrei mai pensato che sarebbe potuto entrare in quel piccolo spazio. Ma tant’è. Mentre ero li che guardavo l’auto dubbioso, vidi avvicinarsi un gruppetto di persone che da via delle Botteghe Oscure si dirigevano verso l’auto. Li riconobbi subito ed era evidente fossero interessati anche loro alla Renault.
Di chi si trattava?
Riconobbi il capo della Digos romana Domenico Spinella, il comandante del nucleo investigativo dei Carabinieri Colonnello Cornacchia, ed il Ministro Cossiga.
Quindi erano passate da poco le 11.30
Si, più o meno. E ricordo due particolari che ho ancora impressi nella mente. Il Colonnello Cornacchia mi rimproverò con un “Lei che è un militare, non si vergogna ad andare in giro così?” alludendo ai miei capelli che non erano proprio cortissimi. Avrei voluto rispondergli che venivo da due mesi in cui avevo dormito poco, fatto gli straordinari e rischiato la vita ogni giorno, ma lasciai stare. Il Ministro Cossiga, invece, mi chiese a bruciapelo: “Raso, che ne pensa di questa macchina?” Io lo guardai e con aria preoccupata risposi: “Ministro, si tratta di un’auto molto pericolosa. Ho notato al suo interno dei bossoli. È necessario lavorarci con molta attenzione ma alla svelta.” “Bene – mi rispose – Mi tenga informato.”. E nel dire questo si allontanò insieme alle persone con le quali era arrivato dando ordine di far transennare la via da entrambe le direzioni per non far avvicinare nessuno, come da procedura.
Un momento Vito. Stai dicendo che quella mattina tu hai visto il Ministro Cossiga in via Caetani molto prima delle immagini ufficiali che sono collocate ben oltre le 13.30 e che mostrano i vari politici accorsi dopo la notizia data dalle agenzie quando, tra l’altro, la strada era già affollata e transennata?
Assolutamente si. Io vidi il Ministro Cossiga due volte. Poco dopo il mio arrivo in via Caetani e poi dopo un’ora e mezza due, quando terminai il mio lavoro di ispezione dentro la macchina.
Cossiga va via assieme agli altri personaggi che lo accompagnavano e tu inizi il tuo lavoro…
Per prima cosa mi pongo il problema di come entrare in auto. Con molta attenzione forzo il finestrino anteriore sinistro e sblocco la serratura. Inizio l’ispezione dell’auto che, per fortuna, conoscevo molto bene in quanto mio padre possedeva proprio una R4 e con essa feci le prime esperienze di guida. Sempre muovendomi con molta cautela, controllai i tappetini anteriori, il cruscotto, frugai sotto i sedili alla ricerca di qualche elemento che mi desse conferma della presenza di un ordigno a bordo. L’operazione durò molto tempo in quanto ogni movimento era studiato ed effettuato con la massima delicatezza. Dopo aver terminato di controllare la parte anteriore della macchina, sempre dall’interno, mi spostai sul sedile posteriore e, dopo una breve ispezione, la mia attenzione fu catturata dal vano bagagli che, nella R4, è un tutt’uno con l’abitacolo.
Cosa notasti?
Mi resi conto che c’era una coperta che copriva qualcosa, e lì la mia preoccupazione salì. Essendo sconsigliato spostare la coperta perché poteva essere collegata ad un ordigno a strappo, provai a metterci una mano sotto. Toccai qualcosa, una “peluria” che in un primo momento attribuii al pelo di un cane. Non capivo, ero disorientato. Poi notai che, appoggiato sulla coperta, c’era un borsello e lo presi. Non fidandomi troppo, con un taglierino troncai la cinghia che lo teneva chiuso e, oltre ad un orologio ed una catenina, trovai un assegno di 27.000 lire dell’allora Banco di S. Spirito intestato ad Aldo Moro. Fu in quel momento che capii che sotto quella coperta c’era il Presidente della DC. Dopo qualche secondo notai l’inconfondibile segno che identificava Moro e cioè la ciocca di capelli bianca, la sua caratteristica “frezza”. Era immobile ed il mio primo pensiero fu che lo avevano narcotizzato. Poi notai tre cose: molta sabbia nera, delle ampie macchie di sangue fresco sul petto in corrispondenza di fori di arma da fuoco e un fazzoletto di carta sotto al bavero della giacca posto come a voler tamponare le ferite. Fu la vista di quel sangue a darmi la certezza che in quell’auto le Brigate Rosse ci avevano riconsegnato il cadavere di Aldo Moro.E fu allora che notai un particolare.
Quale?
Come dicevo prima, il 16 marzo ero intervenuto in via Fani. Ero arrivato non troppo tempo dopo la conclusione dell’agguato (mezz’ora massimo tre quarti d’ora) e i cadaveri dei poveri agenti erano ancora scoperti. Mentre mi occupavo del presunto ordigno che fu trovato ai piedi dell’autista di Moro, Appuntato Ricci, mi sporcai del suo sangue che era ancora fresco e che colava dalle sue ferite. Ebbene, il sangue che ebbi modo di vedere sul petto di Moro, era dello stesso colore e fluidità di quello visto in via Fani.
Come se fosse stato ammazzato da non più di un’ora, insomma…
Si, ebbi proprio quell’impressione.
A chi comunicasti la notizia?
Aprii lo sportello posteriore destro ed uscii dalla macchina. Il gruppetto di personaggi assieme a Cossiga era in fondo alla strada e io gli feci cenno di avvicinarsi. Quando furono abbastanza vicini, parlando a voce bassa per non farmi ascoltare da orecchie indiscrete dissi: “Ministro, dentro quell’auto c’è il cadavere di Aldo Moro”.
Cossiga e gli altri che reazione ebbero?
Assolutamente nessuna. Restarono impassibili. Nessun segno di sgomento o stupore, né lui e neppure gli altri funzionari che gli erano accanto. Come se già sapessero.
Come se già sapessero o come se fossero stupiti, increduli, della notizia?
Non avevano l’aria di essere stupiti. Ho avuto la netta sensazione che per loro non fosse una novità.
È il momento in cui la storia si svela in tutta la sua drammaticità.
Molti erano li perché si era sparsa voce di un’autobomba, altre voci parlavano di Moro, ma ciascuno, in cuor suo, nutriva ancora un lume di speranza. Poco dopo l’apertura si avvicinò un prete che poi seppi essere Don Damiani, prete personale di Moro. Mi chiese se poteva benedire la salma e, naturalmente, acconsentii. Essendo un credente, anche io mi raccolsi in preghiera. Quel pomeriggio, al termine dell’intervento in via Caetani, rientrai in ufficio e scrissi il mio resoconto. Nel consegnarlo il mio capoufficio ebbe una reazione insolita. “Ma che cavolo hai scritto?” alludendo al mio italiano o forse alla forma complessiva del mio scritto. Forse a causa della stanchezza non ero stato molto chiaro, ma non mi era mai successo che un “rapporto di servizio” mi venisse strappato in faccia.
Quindi del tuo intervento di quella mattina non esiste traccia?
Il Maresciallo Circhetta era accanto a me e si propose per farne uno cumulativo dell’intervento di tutti e tre. E così fu fatto. Ho deciso di scrivere un libro di memorie anche perché negli anni ho ascoltato di tutto. Persone che non ne sapevano nulla (non avendo vissuto in prima persona la vicenda) ma che sentivano il bisogno di parlare, dicendo un sacco di inesattezze. Ho voluto raccontare la mia storia consapevole del fatto che, in questo mio racconto, ci sia un ordigno a tempo che prima o poi esploderà. E’ un titolo, in qualche misura, autobiografico… Mi sono sempre detto che qualcosa non quadrava, ma non ho mai voluto approfondire, non me ne sono mai interessato. La decisione di scrivere il libro, forse, nasce anche dalla speranza che qualcuno riesca a dare una risposta a questi interrogativi. Io ho raccontato quella che è la mia testimonianza, che nessun magistrato e nessuna commissione d’inchiesta mi hanno mai chiesto. So che a oltre 50 anni anni di distanza sarà difficile ma spero lo stesso che le mie parole possano servire a fare un po’ più di luce su una vicenda che, ancora oggi, rappresenta per me un forte shock. Con il quale non ho ancora imparato a convivere.
a cura di Oreste Mottola