Toni Palladino, storico fotografo di Vallo della Lucania. Per decenni, attraverso i suoi attenti occhi, ha immortalato tanti particolari del Cilento e non solo. Quanto alla sua Vallo della Lucania, si può dire che, ognuno in casa propria, abbia almeno una sua foto in cornice. In una conversazione telefonica, ho avuto il piacere di affrontare con lui, diversi temi; dalla fotografia ad alcune riflessioni stilistiche sull’arte e la sua estetica.
- Toni, mi hanno colpito molto le foto che hai pubblicato sui tuoi profili social nel marzo del 2020, in pieno lockdown. La piazza di Vallo della Lucania sotto i colori di un’atmosfera surreale, vuota. Un grande spazio aperto, desolato, in una versione insolita e inaspettata, con qualche rimando alla “metafisica” di Giorgio De Chirico.
Sono una serie di immagini che ho ricavato a 10 metri dal mio studio; un lavoro, un diario visivo che ho intitolato “dalla finestra”. In pratica, un esercizio stilistico che mirava a focalizzare tutti quei particolari che non vedevo e recepivo in una condizione di “normalità”. Ho elaborato il tutto in uno stato emozionale diverso, condizionato da quel momento storico che stavamo attraversando due anni fa.
- Fai da tanti anni il fotografo e lavori spesso per commissione, ma in parallelo, porti avanti da tempo il concetto della foto d’autore. Il tuo percorso si sviluppa su studi e ricerche in continua evoluzione.
Come hai detto, ci sono due momenti. Nel mio campo lavorativo c’è quello riferito al “conto terzi”; vivendo in un piccolo centro cilentano, hai a che fare con il quotidiano delle persone che, con tanto di rispetto ti danno la loro fiducia e ti aprono le porte di casa. Questo mi ha permesso di lavorare per tante famiglie, spesso per più di una generazione. Affiancata a questa modalità, c’è un discorso che esula dalla mera commercializzazione del mio lavoro. È in quella occasione che, con la vena artistica, cerchi di guardare intorno le cose con un occhio diverso. Sei agevolato dallo strumento, la macchina fotografica, che ti permette di restituire delle immagini e di visualizzarle, come il pittore fa con il suo pennello e la sua tela. Riesci a dare sfogo al tuo modo di sentire le cose e quindi riesci ad ottenere, se ti va bene, dei risultati importanti.
- Quando hai iniziato a fare questo lavoro? Quando hai capito di avere questa sensibilità che, ti ha permesso di elaborare un linguaggio artistico come testé accennavi?
Nel 1984 ho cominciato a frequentare uno studio fotografico con una certa continuità, grazie all’amicizia di un vecchio fotografo. Fin da subito, ho avuto la necessità di mettere sulla carta, alcune cose che sentivo mie; di tirare fuori una parte di me stesso che non riuscivo ad esternare se non con la macchina fotografica. Ma è solo dopo aver appreso tutte le conoscenze tecniche di base, fondamentali insieme ad altre cose, che sono riuscito a riconoscere appieno il mezzo che mi ha permesso di esaudire questa esigenza espressiva. Successivamente poi, è diventato un lavoro. La fotografia comporta delle spese economiche e per rispondere anche a queste esigenze, c’è stata la necessità di produrre economicamente qualche risultato.
- Stiamo parlando di un periodo in cui si lavorava in analogico?
Si. L’analogico è stata una grande scuola di formazione, una palestra in cui dovevi imparare a fare le cose e farle veloci. Dovevi gestire i tempi e in esso, conoscere il mezzo con cui lavoravi, non potevi permetterti errori. Da questo punto di vista, l’analogico ha dato una bella struttura sulla quale potersi muovere meglio, con l’avvento tecnologico successivo. Fondamentalmente la differenza tra il digitale e l’analogico non c’è, quelle che sono le regole della fotografia sono valide per entrambe, cambia solo il mezzo, esattamente come per lo scrittore che scrive il suo libro con la macchina da scrivere o con il computer. A quel punto non è importante come lo scriva, ma quello che scrive, la differenza è relativa; se non hai un’idea, tutto il resto diventa un castello di carta. Oggi il digitale ha aperto le porte a tantissimi fotografi che, scattano 500 foto per averne 20 buone. Allora tutt’altro. Si usciva dallo studio con 6 rullini e avevi a disposizione 120 scatti, nei quali, dovevi raccontare un giorno, un avvenimento, un qualcosa che faceva parte della vita di alcune persone, un racconto che avrebbero conservato nel tempo. Dovevi fare un grosso lavoro di sintesi e di sintassi per concretizzare quello che volevi dire. Dovevi conoscere la tecnica, la luce, tante cose che, ora come ora, probabilmente per comodità, vengono delegate al microchip. Nell’analogico l’immagine la vedevi prima nella tua testa, adesso spesso e volentieri si delega tutto ad un passaggio successivo fatto al pc. Pertanto, ritengo di esprimere un concetto; la fotografia si fa sempre dietro la macchina fotografica e non davanti, nasce prima tutto nella testa e nel cuore del fotografo dove, confluiscono le emozioni e le conoscenze con le quali elabora l’idea.
- Da cosa sei rimasto influenzato, il tuo linguaggio artistico ha un’ispirazione specifica?
Non saprei, non ho un riferimento preciso, a me piace guardare molti colleghi moderni o quelli più datati. Trovo interessante Mario Giacomelli, lo stesso Henri Cartier-Bresson, ma a rifletterci bene, anche l’aver visto una mostra pittorica può aver influenzato la mia formazione. Una volta a Venezia rimasi fulminato da Caravaggio, queste tele bellissime che mi guardavano! Ebbi una quasi sindrome di Stendhal. Ti rimangono dentro così tanti particolari e dettagli di cose che alla fine, vanno inevitabilmente ad influenzare il tuo stile per riportarlo poi, su soggetti e ambienti diversi. Un po’ come riprendere la luce di un Rembrandt per un tuo ritratto. E’ proprio questa pluralità del vedere le cose che ti stanno intorno, che arricchiscono il tuo bagaglio. Non c’è un solo autore, ma prendi degli spunti con altri punti di vista ed esperienze, dando alla fotografia, il colore della tua terra o il suono realizzato in un paese dell’Est Europa, magari… col calore del sole del Sud America. Qualcosa di bello da vedere, da fruire e comunque, qualcosa che senti tuo.
- Per non parlare della tautologia sulla quale mi piace riflettere sul tema dell’arte in merito al “messaggio”, ovvero, il messaggio in un’opera non è importante – il messaggio in un’opera è importantissimo.
Come diceva un mio amico arabo, “il messaggio è tutto e il messaggio è niente”. Potrebbe essere un solo esercizio di racconto o allo stesso tempo, un qualcosa di estremo valore che affermi qualcosa di irripetibile.
- L’arte è comunque di libera interpretazione, al di là dell’aspetto oggettivo dell’opera, la percezione è relegata intimamente ad aspetti soggettivi.
Sicuramente l’artista deve avere la capacità di comunicare agli altri quello che sente suo. Ricordo una volta, in una lezione, diedi degli esercizi da svolgere esternamente alla classe; facevo una lettura di portfolio di alcune fotografie degli studenti. Me ne fu sottoposta una che, non riuscivo ad interpretare in nessun modo. Sono sempre stato dell’idea che una foto non va spiegata, ma in questo frangente feci un’eccezione, chiedendo all’autore il significato della foto e il perché di alcune scelte. Mi rispose che tutti gli elementi in essa, rappresentavano l’indice alto del gradimento dell’autore, cioè egli stesso. Ecco, può anche piacere a te stesso il tuo lavoro, ma devi avere la capacità di trasmettere, altrimenti rimane una cosa esclusivamente intimista. Tutta l’arte va mediata e portata fuori i confini del sé, al di là dei canoni consolidati, deve fornire agli altri dei criteri interpretativi.
- Infine, riferendoci al Cilento. In base alle tue esperienze, come mai non si è riusciti a fare di questo territorio un centro culturale alternativo e di rilievo, visto il patrimonio della ricchezza storica e paesaggistica?
A me spaventa un po’ la mentalità dei nostri conterranei, poco inclini e coraggiosi nel riconoscere le competenze presenti sul territorio. Capita ad esempio con la musica, si è visto in più occasioni boicottare la crescita di artisti locali, trovando spesso accordi con band provenienti da altrove. Pertanto finora, c’è stata una propensione a far rimanere le cose come stanno, perché probabilmente si riesce a gestire meglio il tutto, senza farsi carico dei contenuti inerenti ai luoghi, alla cultura e alla ricerca storica della nostra terra.