Francesco Piro professore ordinario di Storia della Filosofia presso il Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione (DISUFF) dell’Università di Salerno, svolge regolarmente corsi di insegnamento presso questo Dipartimento e altri Dipartimenti dell’Università di Salerno sempre in ambito di discipline del settore (Storia della Filosofia, Storia della Filosofia Moderna, Storia della Filosofia Contemporanea, Storia del Pensiero Scientifico e della Scienza). Fa inoltre parte del collegio docenti della scuola di dottorato di ricerca RAMUS istituita presso il DISPAC della stessa Università e partecipa alla vita del Laboratorio di Storia della Filosofia e delle Scienze Umane del DISUFF (diretto dal prof. Maurizio Cambi) in qualità di responsabile del Gruppo di Lavoro per l’educazione al pensiero critico. Pur avendo scritto anche su temi del dibattito filosofico contemporaneo, la maggior parte dei suoi contributi storiografici si concentra sulla prima età moderna e sui modelli di distinzione tra il razionale e l’irrazionale che si definirono in quella stagione, allo scopo di individuarne anche criticamente i presupposti ancora operanti e i problemi irrisolti.
Perché ha scelto la filosofia come materia di riferimento delle sue ricerche?
Ci sono perlomeno tre motivazioni, una familiare, una politica e una personale. Parto da quella familiare. Per quanto mio padre non fosse laureato in filosofia, ma in psichiatria, aveva una forte passione per la filosofia, in particolare per la filosofia del linguaggio, e quindi ho avuto la fortuna di incontrare libri di filosofia nella libreria di famiglia fin da quando ero un bambino. Non si insisterà mai sull’importanza della presenza di libri in una casa per stimolare le capacità culturali dei bambini. Io iniziai a avere qualche prima nozione di filosofia “curiosando” tra i libri paterni e prestando qualche volta orecchio, per quel che riuscivo a capirne, alle conversazioni che mio padre teneva con ospiti filosofi (tra i quali uno in particolare gli era caro: Aldo Masullo). La seconda motivazione è stata politica: quando ero ragazzo, esistevano ancora movimenti studenteschi e le assemblee erano luoghi di scontro tra grandi opzioni ideologiche. Per capirne di più, iniziai a leggere le opere di Marx ma anche di Lenin, di Rosa Luxemburg, di Trotzkij, etc. Ricordo che già a sedici-diciassette anni organizzai un primo seminario spontaneo con altri “compagni” con un programma di letture che andava da Adam Smith (abbozzo de “La ricchezza delle nazioni”) ai famosi “Grundrisse” di Marx, programma che ovviamente non completammo mai. Infine, al liceo classico “G. Vico” di Napoli, ebbi la fortuna di avere un professore di storia e filosofia dalle idee politiche vicine alle mie ma che – soprattutto – che aveva la bella abitudine di discutere con gli studenti e fare discutere gli studenti, non limitarsi a fare “lezioni frontali”: il prof. Paolo Schiattarella. Se non lo avessi incontrato, avrei probabilmente scelto comunque una disciplina di tipo umanistico (e non medicina, come mio padre), ma fu questo incontro a determinare la mia scelta per la facoltà di Filosofia. Tra l’altro, proprio negli ultimi anni del liceo, capii di avere più vocazione per la filosofia che per la politica attiva. In classe c’era un ragazzo di destra che – come scoprii proprio grazie alle discussioni tenute durante la lezione di filosofia – capiva Nietzsche meglio di me. Non perdevo perciò occasioni per discutere con lui, sbigottendo i “compagni del collettivo”: ma come, sei uno dei nostri dirigenti e stai sempre a conversare amabilmente con un “fascio”? Va detto che la loro non era semplice intolleranza. All’epoca avevamo tutti l’impressione di essere sull’orlo di una guerra civile, che poi fortunatamente non ci fu. Ma scoprii così che preferivo discutere che dirigere.
Quali atteggiamenti pensa possa suggerire la filosofia per affrontare questa terribile situazione pandemica?
Ci sono due giganteschi problemi che ci pone davanti la pandemia. Il primo è di natura sociologica. La pandemia sta accelerando processi che erano già nell’aria: sostituzione della comunicazione in prossimità con la comunicazione a distanza, telelavoro e probabilmente anche automazione di molte funzioni lavorative tradizionali, aumento a dismisura della dimensione sanitaria (e anche di una logica tutta “curativa” e medica) nel rapporto tra stato e popolazione. Questi elementi preesistevano: già dalla fine del Novecento, la sociologa Karin Knorr Cetina scrive di una progressiva “desocializzazione” dell’uomo tecnologico, che sempre più interagisce con gli altri attraverso protesi informatiche e meccaniche. Ma ora vediamo con chiarezza che queste novità comportano anche diseguaglianze, emarginazione di una parte notevole della popolazione, disoccupazione di massa, emergenza di forme nuove di potere sulla vita e sul flusso delle informazioni. Dovremo perciò inventare dei nuovi modi di organizzare la società, di costruire ruoli sociali e funzioni lavorative, che non pretendano di azzerare questi processi, che – ripeto – vengono da lontano, ma li rendano compatibili con obiettivi di equità, solidarietà e controllo sociale. Ci vuole insomma una sorta di “adattamento creativo” (se mi permetti questo ossimoro) al mutamento in corso. Un secondo punto è politico, ma direi addirittura etico. Io credo che la base di ogni etica sia il concetto di convivenza o (potremmo dire con Judith Butler) di “coabitazione”. La morale ha senso solo per chi coabita con altri e ha intenzione di continuare a coabitare con altri. Ma la società dei distanziati è una società di co-abitanti? Dobbiamo apprendere a vivere il distanziamento – che pure nasce dalla constatazione che nulla è pericoloso per una persona umana quanto un’altra persona umana (homo homini virus, avrebbe detto Hobbes) – come un modo di coabitare e di organizzarci per gestire un destino comune. Perché c’è un destino comune a tutto il genere umano e anche una missione comune a tutto il genere umano, questo non è più un tema da filosofi della storia: la missione comune è quella di affrontare le catastrofi che il genere umano stesso, nella sua spensierata distruzione dell’ambiente, sta provocando. La filosofia non ha risposte già date per questi problemi. Ma può aiutarci a vederli, ad affrontarli con spirito critico, cioè senza avvolgersi in lamentele o mitologie negative (il “complotto”), ma senza nemmeno essere troppo proni a obbedire alle disposizioni dall’alto.
Che conseguenze avrà questa drammatica pandemia nell’università e nella ricerca?
Sull’Università, il mutamento fondamentale è nella relazione tra Università e studenti. Abbiamo appreso che la didattica a distanza è possibile e non credo che ci rimangeremo tutto a fine pandemia. Ma abbiamo anche appreso che essa richiede tutto un continuo apparato di preservazione del contatto, senza il quale lo studio si disperde e si diluisce fino a zero. Io penso che sarà necessario investire in un profondo rinnovamento della didattica universitaria, sia per fare funzionare veramente bene la didattica a distanza, sia per istituire figure tutoriali che accompagnino lo studente nell’elaborazione individuale o di piccolo gruppo, sia per dare nuove funzioni alla didattica in presenza: quest’ultima resta uno dei punti di forza dell’università tradizionale e va assolutamente recuperata quanto prima, ma – poiché le lezioni tradizionali si possono fare in altra maniera – occorre centrarla molto di più sul brain storming, l’esercitazione, il lavoro di gruppo, insomma su esperienze episodiche ma fortemente strutturanti rispetto al lavoro che continua a casa, magari in chat. Su questi punti ci sarà anche una competizione crescente con le università private e l’università pubblica, nella quale lavoro e in cui io credo, dovrà trasformarsi molto per conservare un ruolo di guida. Più generalmente, io penso che le tre “missioni” dell’Università – didattica, ricerca, promozione della crescita civile e produttiva del territorio – richiederanno tutte e tre delle ulteriori specializzazioni e delle figure nuove, capaci di gestirle, che andranno reclutate tra i giovani. Non credo che queste tre funzioni possano essere scorporate e contrapposte. Non credo alla distinzione tra teaching universities e research universities. Ma credo che ogni università dovrà trovare il modo di fare coesistere queste funzioni in un modo più complesso e articolato rispetto ad ora.
Quali sono i suoi progetti futuri?
In ho sviluppato in questi anni tre diversi piani di lavoro. Uno è la ricerca storica sulle filosofie del passato, che è il mestiere che pratico in modo più professionale e attrezzato, leggendo manoscritti e testi di altre epoche. Però è anche quello che soffre di più delle restrizioni della pandemia dal momento che biblioteche e archivi sono ben poco accessibili oggi. Prima o poi, però, cercherò di riprendere un lavoro sulla genealogia dei concetti di organismo, organizzazione, corpo organizzato, che passa per il mio autore più amato, che è Leibniz, ma arriva fino a tempi più recenti. Un secondo piano è epistemologico e riguarda il modo in cui le scienze sociali e umane possono misurarsi con società ultra-complesse e formulare teorie adeguate di esse. In questo ultimo campo faccio riferimento a una rete – il research network puntOorg – creata da un mio amico economista, Luigi Maria Sicca, nella quale si incontrano economisti, sociologi, teorici del management, ma anche matematici, pedagogisti. Con loro abbiamo discusso delle forme dell’organizzare, del narrare come risorsa cognitiva, delle sfide che ha davanti la didattica, ma un prossimo impegno potrebbe essere proprio un rapporto collettivo sulla “desocializzazione”. Infine, un terzo livello (ma connesso) che è la didattica, che intendo non soltanto come didattica della filosofia, ma come impiego degli strumenti della filosofia, della logica e della teoria dell’argomentazione, per programmi di “educazione al pensiero critico”. Qui sto procedendo più speditamente ma ne discuto dopo.
Che consiglio si sente di elargire ai suoi studenti per intraprendere la sua stessa brillante carriera?
Non oso dare consigli ai giovani che si laureano in discipline filosofiche perché la mia brillante carriera è anche frutto di condizioni sociali ben più accoglienti per chi allora aveva vent’anni. Io mi sono laureato nel 1980 e, anche se ho dovuto già attendere più a lungo della generazione precedente per fare carriera nell’università, ho potuto iniziare a lavorare nella scuola piuttosto facilmente e mi sono “fatto le ossa” nella scuola. Tutte e due queste strade sono oggi più difficili perché le nascite sono di meno e quindi minori sono i posti disponibili sia nella scuola sia nell’università e, contemporaneamente, la ricerca umanistica e le facoltà umanistiche universitarie ricevono poche briciole di decrescenti fondi per la ricerca. Il risultato è che molti bravi giovani studiosi partono per l’estero e non tornano più – ne conosco diversi – e che chi vuole o deve restare in Italia deve saltabeccare da un incarico saltuario a un altro, in attese decennali prima di un qualsiasi “posto fisso”. Che consigli potrei mai dare? Certo, ne posso dare uno generico: non guardate solo ai grandi temi della filosofia, che certamente sono appassionanti e in cui potete trovare un amore che dura tutta la vita, ma anche alle competenze per dir così “laterali” che la filosofia crea e che possono rivelarsi più immediatamente spendibili. Per esempio, sogno da tempo che l’“educatore al pensiero critico” divenga una figura riconosciuta come il pedagogista o lo psicologo per interventi nella scuola e nelle altre istituzioni educative, pertanto – anche se questo mio sogno difficilmente si realizzerà – credo che converrebbe a ogni studioso di filosofia coltivare anche questa possibile professione, apprendendo quegli elementi di logica, teoria dell’argomentazione, psicologia cognitiva che servono a questo scopo, in modo più approfondito di quanto non faccia mediamente oggi uno studente di filosofia.
Qual è stato il momento più bello della sua professione accademica?
Ti confesso che vedo la mia vita filosofica in modo poco professionale e dunque più dei concorsi, dei premi, dei libri, quello che mi ricordo in modo più vivo sono i momenti in cui ho potuto discutere e confrontarmi con persone fuori dall’ordinario e che mi hanno insegnato qualcosa di non puramente accademico. Ricordo le discussioni lunghissime e sempre appassionanti con il professore con il quale mi sono laureato, Giuseppe Zarone. Ricordo il confronto non sempre facile ma sempre stimolante con Emilia Giancotti, la mia Doktormutter se così si può dire, ai tempi del dottorato di ricerca, una grande studiosa di Spinoza. Ricordo le chiacchierate a casa di Tullio De Mauro quando preparavo il “Manuale di educazione al pensiero critico”, progetto che gli piacque molto. Ricordo il piacere che provai trovando la copia di un altro mio libro sulla scrivania di Marcelo Dascal, lo studioso che ha inventato lo studio della storia della filosofia attraverso le controversie, una volta che andai a casa sua a Haifa. Ci sono altre persone straordinarie con cui ho avuto il piacere di discutere e discuto ancora, ma queste le cito perché sono scomparse. Un’altra fu Heinrich Schepers, un piccolo grande signore che ha dedicato la sua vita a Leibniz e che è morto nel 2020. Una volta gli sottoposi un manoscritto leibniziano che avevo decifrato quasi completamente, ma che aveva uno o due punti residui che mi tormentavano da mesi. Dopo averli risolti in pochi minuti, mi disse che, comunque, il lavoro che avevo fatto era degno “della più alta stima”. Vogliamo metterlo come il vertice della mia carriera accademica? Forse sì.
Ci parla della sua ultima pubblicazione?
L’ultima è quella che non ho ancora finito di comporre ed è una nuova edizione del mio “Manuale di educazione al pensiero critico” del 2015 che si rivolge non più alle matricole universitarie come il precedente, ma piuttosto a studenti della scuola media, dando poche informazioni importanti e molti esercizi per aiutare a formare alcune capacità basilari di ragionamento, dal raccogliere informazioni da un testo complicato alla capacità di valutare l’attendibilità di una notizia a quella di individuare le fallacie nei ragionamenti altrui e propri. Credo che sia un contributo di “servizio” perché un testo didattico è difficile da scrivere e non dà tanta fama a chi lo scrive, ma credo di stare fornendo un componente indispensabile della vera educazione civica in un mondo in cui tanta parte hanno le fake news e le mitologie complottiste. Titolo provvisorio: “Primi passi nel pensiero critico”.
Quanto la filosofia è attuale oggi? In questo mondo frenetico e consumistico come si può riportare in auge la filosofia “socratica” meno istituzionalizzata e maggiormente quotidiana e popolare?
Io ho la fortuna di collaborare con una rivista on line open access che si occupa principalmente di questo. Si chiama “Points of Interest. Rivista di indagini filosofiche e di nuove pratiche della conoscenza”, ovvero poireview.com. La redazione è formata soprattutto da giovani studiosi per la maggior parte laureati a Salerno e che sono ora un po’ qua e un po’ là per l’Italia e per il mondo, mentre il comitato scientifico, che io presiedo, è formato da docenti di varie università italiane e straniere. Di quanto tu mi chiedi ho scritto proprio nella nota editoriale che apre il primo numero della rivista e a cui rinvio a cuor leggero il lettore, dal momento che è breve, scorrevole e gratuito: http://poireview.com/francesco-piro-che-ne-sara-della-filosofia-nel-xxi-secolo.
In sintesi, io credo che il mondo web sia una grande occasione per la filosofia perché le permette di uscire dal ghetto dell’universitarizzazione. La grande filosofia moderna non è mai stata solo universitaria. Kierkegaard, Marx, Croce, Sartre non hanno mai insegnato all’Università, Schopenhauer e Nietzsche lo hanno fatto per pochi anni. Man mano che l’opinione pubblica colta si è dissolta nella grande massa del pubblico dei mass media, la filosofia è diventata sempre più un prodotto specialistico universitario. Il web dà la possibilità di invertire la rotta, di ricostituire la seconda gamba, extra-universitaria, della discussione filosofica. Il problema è però che il web abitua anche alla lettura veloce e alla reazione veloce, che sono l’antitesi della riflessione e della meditazione e dunque della filosofia. Si tratta allora di creare modi di stare sul web che educhino all’etica della lettura lenta e “critica”. La nostra rivista, che affronta con un certo rigore scientifico anche temi molto caldi di oggi, è un tentativo, ma altri possono esserne fatti, che usino ancora più fortemente la possibilità di interazione permanente che dà il web.
Ringraziamo il Professor Francesco Piro, per gli importanti e saggi pensieri che ha rivelato, studiosi illustri come lui, migliorano e accrescono la tradizione culturale italiana e mondiale.