Francesco Citera, compositore e musicista cilentano, conosciuto per il talento sconfinato che esprime attraverso la sua fisarmonica. Un amico a cui mi sento di attribuire un animo gentile, sensibile e sincero. Vanta preziosissime collaborazioni con artisti nazionali e internazionali, una figura competente e piena di risorse che il mondo della cultura musicale, ha premiato ovunque con riconoscimenti importanti. È stata una piacevole e lunga telefonata, nella quale abbiamo affrontato alcuni temi attuali che interessano la sua professione e attività di artista.
Francesco, un musicista affermato del tuo calibro, come sta affrontando questo lungo periodo di restrizioni? Gli enti hanno fatto poco ed è paradossale non ricevere maggiori attenzioni in merito. Possiamo dirlo apertamente, le istituzioni hanno letteralmente abbandonato il settore.
È una domanda molto importante. Stai parlando di un’attenzione che meriterebbe una persona che produce arte, che esprime i suoi sentimenti più intimi. Per risponderti, mi piacerebbe riportare quello che tanti anni fa, mi disse il Dott. Aniello De Vita riferendosi al grande Umberto Bindi: «com’è possibile che in un paese come l’Italia, si permetta il pignoramento del pianoforte ad un artista di questo spessore, costringendolo a finire i suoi giorni in una casa di riposo? Senza un riconoscimento per quanto dato nel corso di tre o quattro decenni di musica». Ecco, di fronte a questo, si percepisce quali possono essere le attuali attenzioni per il settore. Se uno stato non tutela un’artista del genere, protagonista di rilievo della Storia della Canzone Italiana, figuriamoci come possa pensare di tutelare le piccole realtà, talvolta neanche molto affermate.
Quindi il futuro è davvero molto incerto?
È davvero difficile perché nel frattempo, c’è stato un appiattimento da parte del pubblico. Le persone, in tutto questo tempo di stop, hanno messo in stand by le emozioni, le curiosità. Difficilmente oggi si va in un locale per ascoltare un gruppo nuovo che propone qualcosa, è più facile che si parta da casa per andare a saggiare un particolare tipo di pizza. Io questa impressione l’ho avuta. Recentemente mi è capitato di fare delle esibizioni nelle quali, sembrava quasi che dessi fastidio. La gente era venuta lì esclusivamente per mangiare.
La situazione era già in decadenza qualche anno prima della pandemia, ricordo un episodio simile in un locale, quando venne chiesto ad un artista di spicco, di abbassare il volume ritenuto troppo alto. Sto parlando del grande Joe Amoruso, scomparso nel marzo del 2020.
Questo è quanto di peggio si possa fare per mortificare un artista, di quel calibro poi. Tuttavia credo sia un nostro errore, è un serpente che si morde la coda. Noi musicisti dobbiamo lavorare e prendiamo le serate con la consapevolezza che chi esce da casa, lo fa per andarsi a divertire. Non possiamo pretendere di fare il concerto della nostra vita in un pub, bisogna contestualizzare. Se ho bisogno di una platea che ascolti quello che faccio, non vado a suonare nel locale, ma nel teatro. Sarebbe opportuno far organizzare il concerto pretendendo che il consumo delle pietanze, avvenga in un arco di tempo separato dalle performances, altrimenti si è costretti a chiudere gli occhi e inserire il pilota automatico. Bisogna rendere noto, a chi ci sta ingaggiando, quali sono le nostre necessità. Se ho bisogno di raccontare uno spettacolo, devo essere messo in condizioni di poterlo fare.
In Cilento però, mancano le figure organizzative in grado di stabilire un ordine in tal senso. Se dovessero esserci delle condizioni per poter riprendere a suonare come nel 2019, cosa andrebbe rivisto?
Bisogna avere delle figure professionali capaci di coordinare, di convogliare le energie a fin di bene per tutto e tutti. Se dovessi fare un’analisi su un errore che abbiamo fatto in passato, credo sia stato quello dell’essersi ostinati a scegliersi una figura del genere tra noi musicisti. A mio avviso, dovrebbe essere una persona che con la musica suonata, dovrebbe avere poco a che fare. Una figura esterna, un professionista che abbia innanzitutto una conoscenza legislativa importante e riesca a curare, creando una rete, un filone lavorativo. A dirla tutta, servirebbe un vero e proprio team di esperti. Sotto questo punto di vista, potremmo imparare molto dall’Emilia Romagna che da circa 40 anni, gode di un sistema organizzativo significativo.
Eppure in Cilento si è provato a fare qualcosa, ma dopo gli entusiasmi iniziali, si è mostrato complice un atteggiamento singolare, quello di portare l’acqua esclusivamente al proprio mulino.
E poi ci contraddistingue la pigrizia.
C’è da dire che la pigrizia è anche il frutto di un qualcosa che non offre stimoli. Sicuramente, cedere al non far niente è una responsabilità indicativa di propria colpa, ma anche la realtà carente di spazi, sale prove, organizzatori, di un pubblico educato alla fruizione musicale. Mancanze scoraggianti.
Infatti, bisognerebbe capire se è la pigrizia a nascere prima o quella situazione che fa nascere la pigrizia. Il nodo da sciogliere è qui. Per intenderci, se ho un progetto musicale che posso portare in giro solo d’estate, nel frattempo mi impigrisco. Lascio che il tempo passi perché dovrà arrivare l’estate. Quando senti parlare di destagionalizzazione, ecco, questa cosa sarebbe bellissima anche per la musica, al fine di lavorare non solo per 40 giorni all’anno, ma con la possibilità di allargare gli impegni in un arco temporale più lungo. Purtroppo per far questo servirebbero le strutture.
Non solo per fare concerti, ma anche per poter praticare la musica sotto aspetti formativi, culturali e di scambio. Strutture fisiche nelle quali sia possibile fare quello che oggi manca per davvero. Anche per il giovane musicista, al quale, viene trasmesso molto poco.
È vero. Ora ti porto due esempi pratici per avallare quello che stai dicendo. Ho conosciuto i “Blue Stuff”, il gruppo di Edoardo Bennato, nel 1992, avevo 13 anni. Vennero a suonare in piazza ad Agropoli e stavo con alcuni miei amici. Sentimmo passare la macchina del comune che annunciava il concerto e incuriositi ci recammo esattamente lì. Durante lo spettacolo, stavamo tutti dietro al palco, eravamo circa in 30. Tutti ragazzini curiosi e attenti nel rubare con gli occhi, quello che la band faceva. Andò a finire che dopo l’evento, presi dalla voglia, andammo a suonare a casa di un nostro amico. Altri tempi! Poi successivamente nel 2006, sono entrato a far parte proprio nei Blue Stuff e ad oggi, manteniamo una collaborazione sempre aperta.
In effetti i tempi attuali sono diversi.
Si l’approccio è cambiato, nessuno si incuriosisce più ed è tutto saturo. L’altro esempio che ti voglio riportare riguarda la musica tradizionale. Come ben sai, provengo da una famiglia nella quale si pratica l’arte della musica popolare da sempre – sono cresciuto con mio nonno che era un costruttore di zampogne e ciaramelle e ricordo molto bene quando riceveva a Massicelle gli altri “suonatori”, ai quali vendeva i suoi strumenti. Arrivo al punto dicendo che, molto spesso s’incorre in un errore gravissimo, ovvero, si spaccia per cultura popolare o tradizionale roba che anagraficamente è più giovane del sottoscritto. Per esempio, ai ragazzini che oggi si avvicinano all’organetto, facciamo credere che canzoni scritte 15 o 20 anni fa siano la tradizione. Un approccio superficiale che con la musica popolare non c’entra nulla.
Anche perché la musica popolare è connessa ad esigenze particolarmente diverse.
Assolutamente, stiamo parlando di contesti assolutamente lontani. Ecco, questa è una cosa sulla quale si potrebbe lavorare. Tu vuoi avvicinarti alla cultura popolare? Devi fare una ricerca che ti aiuti a capire l’importanza e il perché di quella musica, in modo da poterla rispettare. Qui si scambia fin troppo, il liscio folk per tradizione.
Effettivamente, se dovessimo ipotizzare di definire un moderno filone della “musica popolare” come “nuova cultura”, dovrebbe attingere nel modo più puro e onesto dalla tradizione, riconoscendone la diretta paternità, prima di elaborarne lo stile.
Una volta al mese andavo a suonare in uno storico locale romano, il “Big Mama”, dove si faceva prevalentemente rock e blues. Uno dei due proprietari, mi ricordava una serata al locale con Roberto Murolo. Gli chiesi cosa centrasse Roberto Murolo nel tempio della musica blues italiano. Mi rispose con una domanda retorica: «c’è qualcosa di più blues a Napoli di Roberto Murolo?» Ecco, questo significa aver fatto una ricerca. Il blues non è solo una chitarra scordata e il cantato dallo slang americano, ma un racconto di storie quotidiane. Anche in Cilento, un verso antichissimo, si concilia sotto questo aspetto. “Io me ne vengo passi passi”, sentito suonare su una chitarra battente, ha delle caratteristiche molto blues.
Il blues prima delle sue caratteristiche musicali è una condizione, uno stato d’animo.
Una donna di cui sei innamorato che non ti pensa.
D’altronde anche le tematiche delle musiche rurali sono pressoché analoghe.
Si, si rincorrono. Per questo nasce una mia duplice esigenza – la prima, di creare un repertorio che tocchi gli stili compositivi di quasi tutto il mondo, che vada dall’irlandese, all’argentino, al brasiliano, all’italiano. Queste culture, anche se apparentemente sembrano diverse, presentano sempre una similitudine stilistica. La seconda, da fisarmonicista; quella di far capire ai fruitori della mia musica che non si deve per forza etichettare uno strumento e relegarlo in precise connessioni di generi, ma l’ampio aspetto timbrico ed espressivo che la fisarmonica offre è un mondo molto ampio.
In questo momento della tua vita artistica, su cosa sei proiettato?
La risposta più semplice che posso darti è quella più sentita: suonare. Una condizione che riempirebbe tutto il vuoto e ritrovare gli stimoli per affrontare i ritmi di due anni fa. Pensando alla fisarmonica, ci sono un po’ di idee in cantiere e mi piacerebbe ripartire con un duo, con due fisarmoniche. Inoltre, cosa ovvia, continuare con le mie collaborazioni che sono il mio ossigeno, il mio pane quotidiano.