Sono figli dei Millenials e si collocano in quella fascia di esistenza che parte dal 2010. Il termine che li identifica è stato coniato dal futurista e demografo australiano Mark McCrindle, che al mondo greco-romano ha sostituito, per definirli, la vocale ancipite ALPHA: simbolo del principio, di un animale sociale che ambisce ad occupare il rango più elevato nella gerarchia della sua società.
Molto più che nativi digitali, si differenziano dalla generazione che li ha preceduti per vari motivi: provengono da genitori con un’età più alta, sono nati in famiglie più piccole, hanno una maggiore aspettativa di vita e sono, indubbiamente, intelligenze simil artificiali, che sperimentano un approccio del tutto nuovo alle tecnologie esitenti, aumentate, rispetto al passato, in modo esponenziale. Una generazione che tuttavia appare essere, così come accade nel linguaggio informatico, alla prima fase di sviluppo di un “programma” evolutivo che deve ancora implementare parte delle sue funzioni. Altamente orientata alla specializzazione, la generazione Alpha sembra destinata a guidare l’alafabetizzazione digitale, anche perché i suoi rappresentanti, sin da piccoli, sono stati indirizzati in questa direzione. Le loro mani hanno toccato smartphones e tablets prima di una penna e la dimensione del pensiero è per loro immediatamente condivisibile e trasferibile, tanto che alla parole hanno sostituito le immagini che le rappresentano. Prima ancora di approcciare il linguaggio, ne sperimentano forme innovative, abbattendo così confini e limiti intrinseci al vecchio umanesimo differenziale: tutto accade ovunque, e, nel contempo, è alla portata di un click. Il mondo che vedono contempla guerre, disastri climatici e pandemie. La consapevolezza che ne posseggono è quella che passa attraverso la trasparenza di uno schermo che sa tutto: sono glassy essi stessi, vetrosi, e protetti a sufficienza da questo filtro che riflette nei loro occhi la realtà. Lo riporta Forbes: nell’ultimo Natale l’oggetto più volte inserito nella Wishlist di Amazon dagli utenti registrati era il BUDDIBOX, una particolare cover pensata per consentire anche ai più piccoli di utilizzare in sicurezza dispositivi come iPhone ed iPad.
Nel 2020 conoscono la DAD: la didattica a distanza. È l’ultimo dei salti dimensionali che compiono e che stavolta è richiesto, imposto, obbligato. Non sembrano adattarvisi male, eppure, a guardar bene, questo splendido isolamento digitale li rende ancora più –oidi e meno uman-, tanto da spingerci a chiederci, noi che siamo stati la prima generazione di internet, quale futuro per la loro educazione? Chi saranno gli adulti della scuola dopo il Covid19?
Il problema principale resta la mancanza di confronto diretto con i coetanei e con gli insegnanti, e questo senza tenere conto delle difficoltà fattuali di una modalità di apprendimento che tende a confermare, se non ad ampliare, le distanze sociali e la dispersione. Impressiona il dato Istat per cui un terzo delle famiglie non ha in casa un pc o un tablet. Penalizzato il sud e le famiglie con genitori anziani. Penalizzati i ragazzi, discenti sempre più alienati, quand’anche in possesso di strumentazione adeguata, dall’assenza di un “capitano” che tenga dritta la rotta dell’educere. La memoria di John Keating, l’insegnante di letteratura magistralmente interpretato da Robin Williams, protagonista del film “L’attimo fuggente”, il quale invita i suoi studenti a “rendere straordinaria la propria vita” è pellicola impecorita per le nuove generazioni. Lo sostituisce, ormai da anni, la voce elettronica di Siri o Alexa, e nello specifico della DAD, l’immagine pixelata di un volto docente che andava già perdendo di autorevolezza tra i banchi della scuola stessa. L’emergenza legata alla diffusione del Covid19 ha messo in evidenza una frattura anche più profonda, tra la cultura dell’Humanitas e quella della Techné, tra la memoria del cuore e quella di un processore, tra l’attenzione ai bisogni soggettivi e comunitari e un’attenzione rivolta alla fredda oggettività. Quello che sembra accadere, in sostanza, è la perdita di un orizzonte di senso di tempo individuale e collettivo a favore di un tempo sempre più egocentrico ed individualista, un rapporto uno a tutti che diviene nullo, in cui persino uno studente diventa un banale fruitore di informazioni colonizzanti e non uno scopritore di mondi nell’interiorità. Fa paura a chi pure in questa rete di connessioni ha imparato a vivere, districandosi tra i nodi dell’impossibilità di certezze e fonti attendibili. Fa paura e ci rende vecchi, a volte nostalgici, se non della scuola che abbiamo conosciuto, certamente di quella che avremmo voluto per chi è venuto dopo di noi e che invece si ritrova a costruire con mattoncini di virtualità.
Francesca Schiavo Rappo