La monumentale scultura in bronzo, firmata dallo scultore De Luca e realizzata dalla Manifattura Fonderie Napoletane nei primi decenni del XX secolo, replicante il celebre Fauno trovato nell’impluvium della omonima Casa nella Pompei romana è certamente l’opera che attira subito, per notorietà e per grandezza, l’attenzione del visitatore alla mostra “Imitanda” allestita nelle suggestive sale del Castello di Castellabate. Una esposizione che in definitiva è un ritorno allo storico sette ottocentesco Grand Tour, ma è anche il Grand Tour nell’arte di quei secoli di scoperte e viaggi di Saverio Di Giaimo, collezionista attento, colto, che ritorna nei luoghi di origini familiari con quanto ha raccolto in anni di ricerche in quegli anni dei lumi in cui l’arrivo dei tanti stranieri della nobiltà e della borghesia facoltosa europea discesero in Italia per “completare un percorso di formazione culturale”.
Scrive, in catalogo, Saverio Di Giaimo: «La mia famiglia paterna proviene dal Cilento, Castellabate. Licosa, l’isola della leggendaria Sirena è un sigillo nel mio cuore, un marchio affettivo nel mio Dna. Ogni estate, puntuale, come un rituale misterico, ritorno alle mie radici». E quest’anno Di Giaimo è ritornato con quanto di bello, con attenzione, ha raccolto nella sua casa napoletana e nella sua galleria alla Riviera di Chiaia. Poi continua: «Tra le acque di Licosa mi lascio cullare da quell’odore direi quasi religioso misto a resina di pino di Aleppo ed all’arsura del sale marino, stordito dal canto ipnotico delle cicale che riecheggia come magico inno di nuove Sirene e da un sole accecante che affonda il proprio riflesso nelle basse acque vestite di posidonia, sino al silenzio divinatorio del tramonto, quando il sole si addormenta dietro la linea della lontana costiera ed il faro si pone a filare i ricordi e i pensieri: mentre i resti romani dell’isolotto affioranti a pelo d’acqua e punteggiati da gabbiani a riposo, regalano il senso dell’appartenenza e dell’eterno, ed all’orizzonte di terra, Castellabate osserva già sicura del suo maniero».
Pagina di letteratura, omaggio di un figlio di questa terra la quale sa coinvolgere l’animo e i pensieri ogni qualvolta ti fermi ad osservare il saluto del rosso sole dopo che uomini e cose hanno vissuto una splendida giornata d’aria.
Le stanze del Castello dell’Abate, il Castrum Abatis, si inseguono una dietro l’altra, incastrate in un gioco di vuoti riempiti da mobili, ceramiche, porcellane, tele, bronzi, piccoli e grandi oggetti d’arte realizzati tra il sette e l’ottocento da bravi artigiani e artisti partenopei e campani imitando ciò che il mondo classico scavato, greco e romano, offriva a nuovi fruitori dopo secoli di conservazione vesuviana. Sono “memoria” del passato ricostruito con arte e precisione, sì da diventare, quelle opere, esse stesse capolavoro di un ben preciso periodo della nostra storia meridionale. Basterebbe guardare gli imitati vasi ellenistici prodotti dalla bottega Giustiniani, abile ceramista del ‘700, originario di Cerreto Sannita ed operante prevalentemente a Napoli. Sono, quelle opere, la sapienza della bottega delle mani che riproduceva manufatti di alta qualità, desiderati da quella borghesia europea che giungeva nelle nostre contrade – non bastava più a quei rampolli benestanti e nobili Venezia, Firenze, Roma – alla ricerca della classicità. E qui in Campania ve ne era tanta, anzi era qui l’ellenismo della Magna Grecia di Posidonia e la romanità di Pompei, Ercolano, Stabia ed Oplonti.
Era il secondo quarto del 1700 quando Carlo di Borbone intraprende gli scavi di Ercolano e a breve distanza quelli di Pompei: i Borbone ed il Regno di Napoli si faceva protagonista di un fermento culturale europeo. L’universale clamore con cui le straordinarie scoperte archeologiche furono accolte richiamarono nei territori del Regno di Napoli studiosi e appassionati provenienti da gran parte dell’Europa e in particolare dall’Inghilterra, dalla Scozia e dall’Irlanda, nonché dalla Germania e dalla Francia. La memoria storica si intrecciava, così alla memoria visiva fino a formare una serie di sequenze che ancora oggi si trasmettono di generazione in generazione. E la magnificenza di ciò che era già noto, come i templi di Paestum, e di ciò che veniva scavato con continue sorprese, lascerà ammirati e stupiti quei viaggiatori e quegli studiosi: nasceva una nuova letteratura, una nuova lettura d’arte, «una tumultuosa tempesta culturale – annota Di Giaimo – come onda incontrollabile di un evento sismico, epicentro Sud Italia, che dilaga per mezza Europa».
Scriveva J.W. Goethe: «L’antico era ancora giovane quando quei fortunati vivevano».
Di questo “tempo sospeso” con cui Di Giaimo ha arredato la sua casa, oggi è evento di grande spessore culturale, momento di riflessione su un passato che troppo spesso guardiamo con sufficienza, forse anche distrattamente, perché abituati a vivere con e nella storia. La Magna Grecia ci appartiene, siamo noi gli eredi di Parmenide e Zenone, così come ci appartiene quella romanità che ha eretto i templi di Paestum “maestosi quanto le montagne delle Alpi” a richiamo di Goethe.
Quasi per vocazione, perché figlio di questa terra di miti, Saverio Di Giaimo, come Hamilton, come Valletta e tanti altri ancora, colleziona per il solo amore per l’arte, per ritagliarsi un proprio mondo, intimo, personale e domestico dove la bellezza e la storia convivono e regnano sovrane.
Una esposizione nella quale non solo vi è l’esaltazione del bello, della cultura, ma anche memoria di quella grande capacità tipicamente meridionale che sa farsi intuizione, genio nel fervore dell’arte.
Non sarà stato facile per Di Giaimo mettere insieme una raccolta di oggetti riproducenti l’arte antica, ed essi stessi oggetti d’arte, stante la copiosità di materiale che l’archeologia, e le botteghe di riproduzione, metteva a disposizione di collezionisti e dello stesso neo istituito Real Museo Borbonico di antichità. C’è bisogno di competenza, di oculatezza, attenzione e predisposizione per il bello: Saverio Di Giaimo ha queste doti: “Imitanda” docet. E sono oggetti di varia arte, nella quale eccellevano maestri ceramisti, scultori, maestri di fonderia, pittori. Ed ogni oggetto sembra essere uno straordinario fotogramma in diretta di un passato spesso ignorato. Ritorna alla mente quanto scrisse, diversi anni fa, Alfonso Andria allora Presidente della Provincia di Salerno: «Rivedere con gli occhi del Grand Tour il panorama ricco di riflessi mitici di Paestum e di tutta la zona definita con linguaggio turistico “near Salerno”, significa attivare un percorso di crescita capace di generare un coinvolgimento sempre più ampio partecipato». E la mostra di Castellabate ha raggiunto questo obiettivo, lasciando al visitatore riflessioni, interrogativi insieme alla riscoperta di un periodo in cui i regnanti erano illuminati, ad onta di quanto ci ha tramandato la storia scritta dai vincitori. E si scopre attraverso l’arte, la letteratura, le opere pubbliche realizzate da quelli che allora furono vinti e oggi si rivelano vincitori.
Rimbalza nella mente quanto scrisse, in pieno secolo dei lumi, Johann Joachim Winckelmann: «Per noi l’unica via per diventare grandi e, se possibili, inimitabili è l’imitazione degli antichi, e ciò che si disse di Omero, che impara ad ammirarlo chi imparò ad intenderlo, vale anche per le opere degli antichi, particolarmente dei greci».
In definitiva, a guardarsi intorno in questa età della memoria corta, la raccolta di Saverio Di Giaimo sembra sottolineare quei concetti, forse antichi, ma per certi versi tremendamente attuali.
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