Vi sono luoghi, paesaggi, ambienti sui quali sembra perennemente aleggiare una presenza invisibile. Ebbene, mi pare di percepire tale sensazione ogni volta che entro nel sacrario di Padula, dove riposano i compagni di Pisacane. I toni morbidi della sera avvolgono di ombre lunghe quelle balze sacre e il silenzio parla agli animi più di ogni alato discorso. Nell’essenza delle cose che possiamo vedere e toccare, nella vibrazione stessa dell’aria che respiriamo sentiamo quasi una nenia che viene da lontano e parla ai nostri cuori, riprendendo un colloquio senza tempo nel quale a far da protagonista è l’intreccio di commosse memorie e di speranze, una volta ancora da realizzare e in seguito percepite come una stanca esperienza di un quotidiano al quale non si sa attribuire significato. Chi frequenta questo luogo deve procedere ad una ideale rievocazione perché la fulgida azione sfociata nel supremo sacrificio di chi ha trovato riposo in questo sacrario continui ad operare con senso civico nell’oggi tormentato e confuso per la convinta sensazione di appartenere ad una nazione.
Questi pensieri, questi sentimenti, questo impegno di vita trova riscontro in ogni contesto di civiltà se siamo convinti che “Deorum Manium Iura Sancta Sunto”. E’ vero, rimangono persistenti degli interrogativi: “All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne//Confortate di pianto è forse il sonno//Della morte men duro?” La risposta è NO se, nel contesto della globalizzazione, tutto si misura in termine di PIL, ricchezza materiale, cose da possedere per cui, nella deriva della società liquida, sarebbe giustificato il grido di sarcasmo agli uomini sepolti nel basamento della chiesa paludese: “ne valeva la pena?”
Noi ci proclamiamo figli di un Dio maggiore, di un’altra civiltà. Il miracolo europeo che ha donato al mondo nous, lex e il concetto di persona sui quali fondare le dinamiche di un progresso non solo materiale induce a proclamare “Celeste è questa//corrispondenza d’amorosi sensi, // celeste dote è negli umani; e spesso//per lei si vive con l’amico estinto, (…) // Sol chi non lascia eredità d’affetti//Poca gioia ha dell’urna”. L’eredità di affetti trova il suo codice nella memoria, la sua grammatica per comunicare nella cultura e la sua sintassi nella storia. Ricostruire i fatti, capire i processi, ricordare gli eventi ed esaltare gli uomini è nostro dovere verso chi ci ha preceduto, è il nostro metro di civiltà. Ciò diventa un memoriale sul quale fondare la speranza del futuro perché: “A egregie cose il forte animo accendono//L’urne de’ forti, (…); e bella//E santa fanno al peregrin la terra//Che le ricetta.” Perciò, possiamo ripetere: “E tu onore di pianti, (…) avrai//Ove fia santo e lacrimato il sangue // Per la patria versato, e finché il Sole//Risplenderà su le sciagure umane.” A questo Ettore/Pisacane noi diamo il tributo della riconoscenza grazie anche al restauro del sacrario, un gesto doveroso che libera il monumento dall’abbandono nel quale era precipitato. Onorare i gradi, rinverdirne il ricordo è nostro dovere innanzitutto come educatori preoccupati del decadimento dell’insegnamento della storia per cui si è persa la cognizione della portata del sacrifico dei martiri, delle ansie degli artefici dell’Unità, delle aspettative di tanti che hanno tribolato per rendere la Nazione italiana sovrana, libera, indipendente.
Nel 1857 si rivelò in tutta la sua gravità il problema del Mezzogiorno. L’impresa di Carlo Pisacane lo svela, l’unità nazionale realizzata subito dopo lo evidenzia. Col sacrificio, al di là di ogni retorica egli diventa uno dei padri nobili del paese che sciagurati revisionismi o politiche pseudo-federaliste vorrebbero frammentare. Popolo, Nazione, Stato esprimono una realtà sociale e storica che si esalta nel concetto di Patria, nel quale sono racchiuse aspirazioni, lotte, sofferenze, cadute e vittorie d’intere generazioni dalle quali emersero profeti ed anticipatori. Costoro preconizzarono il compimento di un ideale rispondente allo sviluppo di un preciso programma e per esso disposti ad affrontare ogni sacrificio, perfino quello supremo della vita. La Patria, valore connaturato allo spirito regolatore e propulsore della storia come l’hanno sperimentata gli Europei, forma le coscienze, ispira un habitus mentale, trasforma il singolo individuo in persona sociale, animata da sentimenti di reciproco rispetto, di solidarietà, di onestà, codice di una laica religione che esalta la giustizia e la verità, i pilastri sui quali poggiare un vivere civile che, nel mentre persegue il progresso, tende anche all’elevazione spirituale del popolo. Quando ideali siffatti sono trascurati, dimenticati, peggio derisi, si assiste al decadimento della società, che precipita nella confusione di un materialismo generatore di egoismi, che insidiano il senso di giustizia, determinando la caduta di ogni confine tra bene e male, tra lecito e illecito, degenerazione di una società che rischia di precipitare nel caos. Invece, se ancora ci si emoziona al culto della patria e si educano i giovani agli ai valori civili ed etici che ne discendono, si sarà compiuto il dovere di cittadini e trapiantata la fede nell’anima di chi verrà, un messaggio di pace, fratellanza, di onesto e operoso vivere, antidoto a tanti integralismi.
Dietro l’angolo nella vita di ciascuno c’è sempre la possibilità che l’esperienza della piccola storia individuale s’incontri con le vicende epocali della grande storia trasformando, come per i caduti sepolti nel sacrario di Padula, alcuni avvenimenti irripetibili e, perciò, fatali perché rivelatori del reale contesto storico. Le nostre genti sentirono, forse inconsciamente ma non passivamente, che Pisacane aveva lasciato loro un messaggio reso sacro dalla coscienza del sacrificio cui egli ed i suoi sarebbero andati incontro. E’ l’insegnamento di chi contrappone ad ogni facile scetticismo un mobilissimo testamento politico sorretto dal teorema che l’idea nata dai fatti si propaga per mezzo dei fatti senza mediazioni teoriche. E’ la propaganda del fatto sollecitata da Carlo, cioè la tecnica di diffondere determinati principi attraverso gesti clamorosi. Egli sintetizza questa posizione scrivendo: “Secondo i miei principi avrei creduto di mancare ad un sacro dovere se vedendo la possibilità di tentare un colpo di mano su d’un punto bene scelto ed in circostanze favorevoli, non avessi spiegato tutta la mia energia per eseguirlo e farlo riuscire a buon fine.”
Così partono 117 ex-militi, imbarcano altri carcerati e approdano in circa 300, pochi i patrioti, ma la fede e gli ideali di quel manipolo e l’esempio di Pisacane trasfigurano anche i prigionieri comuni rigenerandoli nelle coscienze e, redenti, finché poterono combattono da eroi. Accusati di essere degli sbadati sovvertitori, invece vedono oltre il tempo. Considerati rivoluzionari, sono in grado d’intuire le ragioni della giustizia della storia e prepararne il compimento aprendo la strada ai politici, nei quali non sempre o quasi mai si ritrova l’impeto generoso e disinteressato di chi é considerato sognatore. Pisacane ed i suoi compagni sono dei patrioti impegnati a realizzare un sogno animati dalla profonda fede che solo i martiri sanno conservare mentre si avviano all’olocausto.
Proprio questo tipo di esperienze fa grandi ed immortali le Patrie. Perciò Pisacane non è rimasto sepolto nella sconfitta. Né è appassito il suo pensiero e, forse, anche il senso della sua azione una volta riscoperto non come sfortunato patriota o uomo d‘azione punito dall’avventurosa inadeguatezza dello sbarco, ma in veste d’intellettuale. Infatti, in lui troviamo sia l’anelito all’indipendenza e all’unità italiana, sia la sollecitazione alla rivoluzione sociale propria di un intellettuale di sinistra, generoso anche nelle sue contraddizioni di libertario e di collettivista, contrario a colpi di mano per principio e protagonista dell’azione di Sapri. Sfortunato perché va collocato nel gruppo dei vinti, categoria poco amata dagli italiani, prontissimi nel soccorrere i vincitori.
L’accelerazione dello sviluppo in senso rivoluzionario del pensiero e dell’azione di Pisacane ruota intorno a tre comunicanti nuclei di esperienze: il rapporto d’amore che lo costringe alla fuga, la vicenda militare e politica del 1848-49 che lo inserisce nello schieramento democratico italiano, gli esili che gli fanno conoscere i movimenti politici, culturali e sociali europei più avanzati. Il suo risorgimento non presenta caratteristiche cavourriane, nè mazziniane. Infatti, egli accusa di misticismo la linea politica del patriota genovese che mal si concilia con la sua cultura militare; mentre il contatto con i programmi socialisti in Europa gli mostra le crepe che impediscono di aderire al fronte democratico-repubblicano. Il suo saggio sulla guerra combattuta nel 1848-49 critica la socialità mazziniana e propone una diversa concezione strategica della rivoluzione. Così, mentre ridefinisce i compiti di un esercito rivoluzionario, delinea il rapporto di subordinazione delle riforme politiche rispetto alla modifica economica-sociale della realtà. Egli pone particolare attenzione al rapporto con le masse per liberarle dallo sfruttamento e dall’oppressione. Da qui l’individuazione di una nuova dialettica economica considerando il Sud, in particolare il Cilento, ritenuto soggetto rivoluzionario per eccellenza se prende coscienza dell’oppressione di classe per i soprusi di pochi.
La lezione di Pisacane risulta ancora valida se, rispetto ai guasti di una costante disamministrazione, non si risponde con l’indifferenza, ma col suo stesso slancio civico come scrive nel testamento: “Io non ho la pretesa, come molti oziosi me ne accusano per giustificare se stessi, di essere il salvatore della patria. No: ma io sono convinto che nel mezzogiorno dell’Italia la rivoluzione morale esiste: che un impulso energico può spingere le popolazioni a tentare un movimento decisivo che deve dare quello impulso. Se giungo sul luogo dello sbarco, che sarà Sapri, nel Principato citeriore, io crederò aver ottenuto un grande successo personale, dovessi pure lasciar la vita sul palco. Semplice individuo, quantunque sia sostenuto da un numero assai grande di uomini generosi, io non posso che ciò fare, e lo faccio.
Il resto dipende dal paese, e non da me.
Io non ho che la mia vita da sacrificare per quello scopo ed in questo sacrificio non esito punto.”