Non ce ne siamo accorti, ma nel commemorare, in questi giorni, l’ultimo terremoto avvenuto in questo nostro territorio meridionale, che comprende l’Irpinia e buona parte del salernitano, constatiamo che sono trascorsi quarant’anni: una eternità vista in futuro, una inezia vista al passato. Tempus fugit! avrebbero detto i nostri antenati latini. Anni trascorsi in una quotidianità che spesso ha assorbito mente, cuore, energie di ognuno di noi per vivere e, a volte, anche sopravvivere alle avversità della vita che, guarda caso!, non mancano mai nella esistenza di noi meridionali. Ultima questa pandemia (“il ritorno” come la popolare trasmissione de “I soliti ignoti”) che ci ha messo in ginocchio e dalla quale non si sa come uscirne sia sotto l’aspetto sanitario (vaccino?) che economico. E’ infatti di questi giorni il summit “Economy of Francesco” (d’Assisi – ndr) che Papa Francesco ha voluto nella città del Poverello radunando economisti di tutto il mondo per una riflessione su una nuova economia, ricapitalizzando tutta una serie di concetti, come quello di valore rispetto al prezzo; una riflessione che parte dalla constatazione che ognuno di noi ha bisogno di tanti beni che hanno un valore ma non possono avere un prezzo, come, per esempio, i beni di cura che non hanno un prezzo eppure sono un valore inalienabile. Non a caso Papa Francesco ha scritto che “questo sistema economico uccide”, per cui bisogna cambiare le regole del gioco finanziario, per cui si impone pensare ad una “economia di benessere e non solo ad una economia di produzione”. Preoccupazioni che, come al solito, Papa Francesco non solo denuncia, ma per le quali si attiva concretamente.
Una discussione sull’economia che, giocoforza, ci riporta indietro nel tempo, alla domenica del 23 novembre di quarant’anni fa, quando i nostri territori furono letteralmente coventrizzati da un sisma improvviso, terribile, che in novanta secondi interminabili ci diede l’esatta importanza del tempo. Saggio era quel filosofo orientale che diceva: “Voi occidentali avete l’ora, ma non avete il tempo”.
Certo, in quelle zone si è ricostruito, si sono alzate case, edifici pubblici, chiese, scuole, aggiustate strade, create piazze in vuoti lasciati dai crolli… ma non si sono ricostruiti i paesi. Questi agglomerati urbani non sono più paesi, almeno come si usava pensarli una volta. Si sono svuotati di valori, di persone per mancanza di un lavoro che certamene non è mai stato abbondante al Sud e nulla si è fatto per crearlo: si è persa una preziosa opportunità per il rilancio effettivo di questi territori che una volta venivano chiamati “Campania felix”. Eppure i finanziamenti sono arrivati e in gran quantità. Evidentemente c’è stata ( e c’è ancora) una impreparazione di base della classe politica e una mancanza di volontà nazionale nel permettere al Sud di essere all’altezza delle sue possibilità produttive.
In un tour durato quasi tre anni, Pio Peruzzini e Gaetano Paraggio, fotografi per non morire, si sono avventurati sui luoghi coinvolti (o stravolti?) dal terremoto del 1980, documentando fotograficamente l’esistente. Il risultato è stato un silenzioso vuoto, un’assenza umana, percepibile soltanto per i panni stesi su un terrazzino, qualche vaso di fiori ben curato, un murales: la presenza umana è da immaginare. Poi spazi che sembrano più grandi delle loro dimensioni perché solo spazi, piazze talmente pulite da far pensare che non sono frequentate, campi infiniti dove potevano esserci attività agricole o ad esse collegate, sui quali però svettano stanche pale eoliche. E se in qualche immagine compare un uomo, una donna in frettoloso passaggio, deve trattarsi certamente di un incidente professionale o di una ricerca faticata, meditata. Un reportage di una solitudine senza tempo! E si favoleggia, oggi a quarant’anni di distanza dal triste evento, ancora di progetti, di rilancio, di ripresa di territori dove l’unica presenza vera è rappresentata dalle macerie invisibili.
Paesi non paesi, territori “a margine”, luoghi dei ritorni periodici, se mai per la festa del Santo Patrono, nei quali chi è partito non si riconosce più e chi è dovuto giocoforza restare è diventato vecchio, stanco, solo, senza il chiasso dei ragazzi, senza l’alzata di voce per l’errore di gioco al tressette o allo scopone scientifico.
Andrea Perciato, guida AEGAE e Travel Blogger si è inventato il “Cammino dell’Arcobaleno” percorrendo quei tragitti che portano il camminatore da un paese all’altro del terremoto, quasi pellegrinaggio sui luoghi della memoria di cui si conservano solo i ricordi personali, struggenti, ben infissi nella mente e nelle carni di ognuno di quegli uomini e donne che allora vissero il tempo della distruzione non solo materiale, ma sociale, umana. Avverte Perciato che i partecipanti dovranno dotarsi di opportuna attrezzatura per il cammino e il pernottamento: e questo la dice lunga sullo sviluppo di quelle zone.
Erano paesi, una volta… oggi sono case messe insieme con un progetto cartaceo. La misura è nel ricordo personale di quei giorni. Quando due giorni dopo la prima, terribile scossa, sorvolai, a bordo di un elicottero dell’esercito italiano, quelle zone insieme ad un operatore televisivo, vedevo sotto di noi le macerie di Teora, Calabritto, Santomenna, San Gregorio Magno, Laviano e così via; vedevo resti di paesi. Oggi a pronunciare questi nomi la mente va ancora e solo a quel terremoto del 1980 e non alla loro attuale esistenza. Un ricordo… ma ognuno che ha vissuto quella tragedia ne ha uno: si preferisce però tacere, conservare il dolore, le lacrime nel proprio intimo, con la dignità cui è adusa la gente del Sud.
Forse, se una riflessione va fatta dopo quarant’anni su quella terribile domenica di novembre, è sull’assenza, in questi decenni, della centralità dell’uomo, come obiettivo primario di ogni progetto. Chi doveva se ne è dimenticato ed ha pensato all’uomo come mezzo per altri fini, altri scopi che, a guardare certe tabelle di programmazione, sono ancora in atto.
Se qualche quotidiano di quei giorni del 1980 titolava, e a giusta ragione, “Fate presto”, oggi a guardare ciò che resta di quel disastro e ciò che è stato fatto in questi quarant’anni, bisognerebbe titolare: “Vergogna!”.
Vito Pinto