Avete mai immaginato un mondo senza teatro?
Probabilmente sì, anzi forse ci stiamo proprio vivendo dentro. Quanto meno non nella forma classica in cui lo abbiamo conosciuto, apprezzato o semplicemente ignorato.
Una forma di rappresentazione della realtà, a pensarci bene, non è mai mancata nella fiumana di esperienze individuali e collettive che oggi chiamiamo storia dell’umanità. Potrebbe trattarsi, infatti, della testimonianza vivente dei rituali più antichi mai compiuti diffusi in tutto il mondo, ciascuno con le sue caratteristiche peculiari. Se provassimo a restringere il campo a ciò che conosciamo meglio, potremmo dire che il teatro è il rito per eccellenza del mondo occidentale.
Il teatro è una lente attraverso cui la società osserva sé stessa esposta soggetta a deformazioni, sfocature e ingrandimenti, in cui in qualche modo si riconosce e trae spunti per ripensare il proprio stare al mondo. L’antropologo Victor Turner (1920-1983) assimilava il teatro a un rito di passaggio come quelli che, presso alcune culture del presente e del passato, sono tenuti a compiere i soggetti per entrare in una fase successiva dell’esistenza. Nel rito di passaggio, l’adolescente deve allontanarsi dalla sua vita quotidiana, superare delle prove e rientrarvi alla luce delle nuove esperienze acquisite. Nel teatro è la società, o parte di essa, che è portata ad abbandonare la vita di tutti i giorni ed attraversare, per poche ore, una soglia al di là della quale è disposta ad accettare tutto ciò che vede rappresentato; viverlo, almeno a livello emotivo e collettivo e portarne con sé, infine, le conseguenze, trasformandole in riflessione o nuova azione.
Nell’epoca della rappresentazione visiva, il rituale teatrale si è diluito in molteplici forme che prescindono dal luogo in cui viene compiuto, anche se la forma fisica “in presenza” non è mai scomparsa del tutto. Nonostante le crisi economiche e sociali, si è riadattato sempre alle mutate necessità del contesto e alle nuove richieste del pubblico.
Nella congiuntura in cui viviamo, quasi tutte le rappresentazioni passano attraverso schermi di vario tipo e dimensione. Immediata, di rapida produzione e ancor più rapido consumo, non lascia il tempo di sottoporre a critica ciò che vediamo perché nel frattempo siamo già passati ad altro. Quindi, anche se in linea di principio i social media potrebbero definirsi una forma di rappresentazione della realtà, nel senso più ampio di performance teatrale perdiamo di vista l’aspetto rituale.
Rimane, anche se di buona qualità, un’espressione fine a sé stessa e soggetta alle regole dell’intrattenimento e del relativo mercato.
Allora, tornando alla domanda iniziale, cosa accade in un mondo senza il teatro tradizionale? A parte lo spunto per un racconto distopico, possiamo in parte averne già un assaggio.
In primo luogo, sappiamo ormai bene che niente teatro (o spettacolo dal vivo) vuol dire molta gente senza un’occupazione. Dal tecnico all’attrice, chi si è dedicato a questo mondo lo ha fatto per seguire una passione o trovare un lavoro, in un settore di cui tutto sommato c’è richiesta e consumo, ma nonostante la sua importanza, è lontano da essere considerato una parte fondamentale della società.
Secondo, niente teatro: niente rito. Seppure non è semplice cogliere l’importanza di questo aspetto, per farcene un’idea dobbiamo pensare a quanto accade durante uno spettacolo: persone diverse, che probabilmente non si sono mai incontrate, appartenenti a diversi strati e categorie sociali, condividono reazioni e sentimenti scaturite da un azione che avviene sopra un palco. Respirano e internamente danzano, per dirlo con il prof. Apolito, un ritmo comune.
È estremamente complicato, se non impossibile, provare la stessa sensazione davanti ad uno schermo, dove consumiamo sì l’emozione trasmessaci da ciò che vediamo, ma da soli. Quanto questo influisca a più livelli è difficile dirlo adesso, dopo “solo” un anno di chiusura, ma un’altra incognita sulla quale bisogna soffermarsi riguarda il modo in cui tornerà il teatro, quando lo farà.
Ci troveremo di fronte ad una semplice riapertura cercando a fatica di ricominciare da dove ci si era fermati? Oppure la natura stessa del teatro ne uscirà mutata, arricchita o impoverita dai nuovi mezzi di fruizione e consumo?
Già da qualche anno il teatro si stava riversando nelle strade dei piccoli borghi. Il Mojoca, festival di artisti di strada di Moio della Civitella, è solo un degli esempi di questo fenomeno, fino ad un anno fa in rapida diffusione in tutta Italia, caratterizzato da un ritorno agli spazi aperti, una ripresa delle arti circensi e un’attenzione rinnovata alle scenografie naturali. Finora non è stato inusuale assistere a una tragedia greca all’interno degli scavi di Paestum o tra i resti di un teatro antico, come è stato facile e piacevole guardare una commedia nella piazza del paese.
L’aria aperta stava tornando ad essere uno scenario abituale di rappresentazione e potrebbe diventare ancor più una direzione necessaria nel contesto che stiamo affrontando.
Il teatro, al momento, non è presente fisicamente dal momento che si è preso una pausa forzata dalle proprie attività. Nel frattempo, come facciamo noi quando andiamo da lui, può riflettere sulle diverse immagini di sé per poi ritornare, reinterpretarle e, appena sarà possibile, cominciare un nuovo corso.
Il teatro è andato a teatro e non ci resta che aspettare che finisca lo spettacolo.
O che ricominci.
Bibliografia
Victor Turner, Dal rito al teatro, a cura di S. De matteis, Bologna, Il Mulino, 2013.
Paolo Apolito, Ritmi di festa. Corpo, danza, socialità, Bologna, Il Mulino, 2014.
Francesco Di Concilio