E’ arrivato all’improvviso, invadendo, subito, le vie, i vicoli, le piazze le corti delle nostre città, dei nostri cento paesi, dei mille borghi e contrade che fanno dell’Italia un Paese meraviglioso, unico al mondo per l’arte, il paesaggio, la cucina e l’ospitalità.
E’ arrivato all’improvviso, il silenzio che, soprattutto di sera, regna sovrano in ogni luogo esterno all’intimità della casa.
Non è la prima volta che si devono vivere tempi di silenzio. La mente va a quella notte di tragedia del 24 novembre 1954, quando l’acqua sconvolse il volto e l’anima delle nostre contrade salernitane: centinaia i morti scomparsi in silenzio tra le acque… e fu il silenzio della solitudine. E poi come dimenticare quel 23 novembre 1980 quando tutto improvvisamente tacque dopo il grande boato della terra che squassò la Campania. E fu il silenzio della paura, di doversi difendere da qualcosa che non si poteva combattere, il silenzio dell’ascolto del rantolo profondo della Terra. E in quel silenzio le strade erano piene di gente, di macchine diventate ricovero, di persone unite nell’angoscia dell’attesa, affidando la casa, i beni, i sacrifici di una vita al destino che si stava compiendo, e a una preghiera alla Vergine Maria.
Il silenzio che invade oggi le strade delle nostre città e dei nostri paesi è il tacere del chiacchiericcio, del consumismo; è il silenzio del modernismo, del tecnicismo, che ci sta facendo scoprire una vita parallela, dimenticata tra le distrazioni di una corsa continua verso qualcosa che ancora non è stato ben definito, mentre scorrono i giorni, la vita… senza che ce ne accorgiamo.
Si viveva, sino all’altro ieri, all’insegna dell’ora che scade, della precisione negli appuntamenti e in mille altre cose di cui, già oggi a distanza di pochi giorni, abbiamo dimenticato il fine. In compenso ci siamo riappropriati del tempo, quello che ha valore perché lascia pensare, meditare, guardarsi intorno, scoprire una quotidianità da alcuni dimenticata e da altri, i più giovani, mai conosciuta.
Tace la città, il paese, il borgo, ma questo silenzio è quello della speranza, che fece dire al grande Eduardo “Ha da passà ‘a nuttata”. E’ il silenzio di una consapevolezza antica delle nostre popolazioni, di una fatalità ragionata, sapendo che dopo ogni notte ci sarà il sole del mattino.
Scorrono gli ultimi giorni di un inverno mai esistito, vanno via lasciando il posto ad una primavera ormai non più percepita, stritolata tra i colpevoli cambiamenti climatici e la frenetica quotidianità che ci ha attanagliato… ma sui rami e le siepi verzica già la foglia novella. Da ragazzi la primavera era, per noi, la Pasqua con i suoi odori di pastiera, la gita fuori porta del lunedì in albis con la pizza di maccheroni nella borsa per il pranzo con gli amici su quello spiazzo che si apriva avanti alla chiesetta collinare: tutto svanito nel nulla dei tempi moderni. La Pasqua di quest’anno del “coronavirus” è stata quella della famiglia, in casa non al ristorante, riscoprendo le antiche ricette della mamma e della nonna, i piatti della tradizione. Ed è stata una Pasqua nuova, una resurrezione di un qualcosa dimenticata, da chiamare, se mai, emozione.
Si sta scoprendo quanto si è vicini in questo silenzio delle lontananze e quanto si era distanti nel chiasso delle vicinanze consumistiche. Soffrono gli amanti nel non incontrarsi, ma vive l’Amore, quello vero e per le cose autentiche, per quelle persone a noi vicine, a volte inconsciamente trascurate.
Qualcosa, dunque, è cambiato nel nostro vivere. Innanzitutto abbiamo dimostrato – se ce ne fosse stato ancora bisogno – che siamo un popolo responsabile, gente che sa affrontare le difficoltà della vita, perché ad esse ci ha preparati la Storia. Assunto, questo, ancor più vero per noi meridionali, il cui maggior problema è il nord della penisola.
Quasi moderna Piedigrotta, anch’essa sacrificata sull’altare degli interessi economici, le canzoni napoletane rimbalzano da un balcone all’altro, di paese in paese, in una sorta di catena di solidarietà, ennesima espressione di un patrimonio che appartiene all’animo dell’umanità. In fondo stiamo dimostrando che non siamo quegli “scapocchioni” che nell’altra Italia e all’estero pensano di noi. Il nostro “tiramme ‘a campà” non è menefreghismo, è filosofia di vita profonda, adattamento alle situazioni, capacità di sopravvivere, in attesa che passi ‘a nutatta. Qui, e bisogna esserne fieri, c’è l’Università della generosità, con le varie facoltà, tutte rigorosamente umane: vedi il “caffè sospeso”, guarda a quel “panaro” appeso con il cartello “chi ha metta e chi non ha prenda”, a memoria di Giuseppe Moscati, medico e santo .
Meditiamo… finché dura il silenzio delle città!
Vito Pinto