Rosina questa mattina del 10 maggio è bell’indaffarata. La scorgo dal portone di casa mia, dal quale non posso fuggire la visione del suo davanzale, essendomi dirimpettaia. Ha la porta aperta Rosina, ma qui è cosa comune. Nessuno o quasi, si barrica in casa. L’aria di maggio porta con sé la voglia di donare ed accogliere, e lasciarsi questa brutta storia alle spalle.
Non siamo ancora pronti, è vero. Con l’ultimo decreto e l’avvio della cosiddetta “fase due” abbiamo tuttavia fatto un salto quantico da uno stato della materia ripiegato su sé stesso, inerte e inerme, al bollore della trasformazione, il fremito di assumere una forma nuova. Come la passata di pomodoro, che questa domenica borbotta sul gas, divenendo lentamente il ragù che dovrà condire la pasta fatta a mano da Rosina per il primo pranzo post quarantena da consumare con figli e nipoti. I congiunti. Gli affetti di una vita, i legami di sangue, quelli che non scegli, ma che imbastiscono inevitabilmente la trama dei tuoi giorni per tutta un’esistenza.
Rosina mi ha raccontato di aver perso peso in questi cinquanta giorni di isolamento. Laddove la maggior parte di noi si è consolato con manicaretti e cibi dubbiamente sani per compensare tanti vuoti, tante mancanze, lei ha progressivamente perso l’appetito. “Mio marito è morto ormai che sono sei anni. Mangiare da sola. Tenersi in salute. Solo per quella peste di mio nipote.”
Uno degli scopi della terza età, questo mondo antico e stanco, in cui i ricordi rappresentano i pensieri ricorrenti più di quanto lo siano i progetti, è la cura dei piccoli di famiglia. Il compito delle nonne non smette di avvicendarsi alle responsabilità delle madri, in un passaggio di testimone che dalle più anziane passa silenziosamente alle più giovani e inesperte. Il bambino forse non saprà mai delle telefonate notturne fatte dalla sua giovane mamma alla propria di madre, per la prima febbre, per un accenno di colite, per un pianto che non smette più. Né della miriade di preziosità donatele, perché alla fine il piccolo si convincesse a mangiare la verdura. Senza neppure rendersene conto, questa donna, a sua volta madre e poi nonna, ha assolto così ad una funzione sociale, trasmettendo un sapere tanto unico quanto di dominio globale: ha contribuito ad un’educazione alla maternità e ad un’educazione sentimentale. Pietro ha sei anni e si chiama come suo nonno. Non lo ha conosciuto, ma per Rosina che porti il suo nome vuol dire già somigliargli. E Pietro accoglie questa eredità sentendo dietro di sé l’ombra di un gigante buono che non fa paura ma che piuttosto lo invoglia a crescere, alto e forte come era lui. Concetta, quando può, è d’aiuto a sua madre per la spesa, per il ritiro dei soldi dal postamat, per le pulizie “grandi” in casa. Un’altra cosa che Rosina non può più fare, infatti, è andare alla posta per il pagamento della pensione. Un modo come un altro per avere ancora un qualche potere sulla sua vita. “Ma più si invecchia più si perde il controllo. Sarebbe stato bello nascere vecchi e diventare bambini con l’età”. Poi sorride e dice: “in parte veramente è così”, tentando di far quadrare la visione dei suoi pochi denti che si sovrappone all’immagine del sorriso di un neonato.
La pandemia non le ha messo la stessa paura che a Concetta, la quale armeggia con disinfettanti e mascherine e guanti anche per apparecchiare per il pranzo. Rosina racconta si, di essersi immaginata cadere e nessuno che potesse soccorrerla ma, in quel caso si sarebbe affidata al buon dio e arrivederci. Forse le è stato più ricorrente il pensiero della morte. Ma anche davanti a questo sembra volersi fare forza dicendo: “siamo amici ormai”, come se neppure dalla solitudine che tutti noi abbiamo provato, si fosse fatta trovare impreparata. Mi dico che in fondo essere saggi è aver compreso di avere in ogni caso un posto, un senso. E Rosina me lo conferma chiamando Pietro e Concetta, per condividere il pranzo.
Francesca Schiavo Rappo