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    Percorso:Home»Ambiente»Il recupero dei Centri Storici: il futuro ha un cuore antico
    Ambiente

    Il recupero dei Centri Storici: il futuro ha un cuore antico

    Di Veronica Gatta25 Febbraio 20167 Min Lettura0 VisiteNessun commento
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    di Antonio Ranauro

    Ho letto con interesse sul settimanale UNICO n° 4 piaggine 11del 04 febbraio 2016 gli appassionati articoli dedicati alla problematica dei Centri Storici, che, come viene evidenziato, rischiano lo spopolamento ed il completo abbandono.

    Per secoli, la diffusa distribuzione della popolazione sul territorio nazionale, oltre a costituire una ricchezza insediativa, ha rappresentato una peculiarità e una garanzia del sistema territoriale sociale, economico e culturale del nostro paese, nonché un’opportunità di diffuso sviluppo economico.

    Questa caratteristica ha garantito, altresì, un efficace presidio nella manutenzione del territorio e una “vigilanza” nei confronti del dissesto idrogeologico, in un Paese come l’Italia, periodicamente colpita da gravi fenomeni di natura ambientale (terremoti, alluvioni, frane).

    A partire dal secondo dopoguerra, lo spopolamento e l’impoverimento di vaste aree – soprattutto pedemontane, montane e insulari – hanno  assunto caratteri strutturali, determinando l’abbandono di innumerevoli “luoghi” abitati e provocando, come deteriore effetto collaterale, la scomparsa di un inestimabile patrimonio di cultura materiale e di saperi legati all’artigianato.

    Al progressivo spopolamento ha fatto seguito il degrado e, soprattutto, la manomissione del patrimonio edilizio ed urbanistico che si era venuto a configurare nel corso dei secoli, a testimonianza dell’identità storico-culturale dei territori.

    Paradossalmente, nel passato, i maggiori danni provocati all’immagine edilizia ed urbanistica dei centri antichi sono derivati, non tanto dal degrado e dall’abbandono, bensì dalla stessa attività di recupero e riqualificazione. Ancora oggi questa attività costituisce la maggiore minaccia alla salvaguardia del nostro patrimonio storico-culturale e, quanto più è attiva, tanto più va distruggendo proprio quei caratteri che suscitano l’interesse verso tale patrimonio.

    A tal proposito dobbiamo ricordare che l’edilizia storica costituisce una risorsa effettiva fino a quando conserva la sua qualità. Nel momento in cui questa viene persa, la risorsa si auto annulla.

    Ha ragione il Prof. Francesco Bandarin, Direttore Generale della Cultura UNESCO, quando afferma che “oggi la sfida di chi amministra i centri storici è non soltanto quella della conservazione delle sue strutture fisiche, ma quella di farli vivere coniugandone la necessaria tutela con l’opportunità di ospitare spazi qualificati di vita e lavoro, senza creare il rischio di ridurli a mere scenografie per turisti”.

    È, però, evidente che tale concetto presuppone la necessità di un cambio di rotta nella programmazione urbanistica del territorio, nel senso che bisogna partire dall’esistente, analizzandone e utilizzandone le potenzialità, siano esse residenziali o commerciali o produttive, per poi realizzare nell’intorno le ulteriori necessarie strutture e infrastrutture.

    Il futuro ha un cuore antico. Sono, cioè, i Centri Storici che, se pulsano, favoriscono lo sviluppo sociale, culturale ed economico delle collettività locali.

    Colgo l’occasione del dibattito aperto da UNICO sull’argomento, per ricordare una legge, alla cui stesura ho partecipato, approvata dalla Regione Campania nel 2002, con la quale si cercò di avviare un discorso concreto sulla sorte dei Centri Storici e di dare risposte alle problematiche che ancora oggi si dibattono. Anche di questa legge, come quella di Ermete Realacci cui fa riferimento Michele Santangelo in un suo articolo su UNICO, sono tanti anni che non se ne parla più.

    La legge regionale in questione è la n. 26 del 18 Ottobre 2002, recante “Norme ed Incentivi per la valorizzazione dei Centri Storici della Campania e per la catalogazione dei beni ambientali di qualità paesistica. Modifiche alla L.R. 19 Febbraio 1996, n. 3”, voluta dall’allora Assessore al Turismo e ai Beni Culturali, Avv. Marco Di Lello.

    Con tale legge la Campania si dotava, per la prima volta, di una normativa che, muovendosi non con lo strumento del vincolo, ma con quello dell’incentivo, intendeva perseguire l’obiettivo di promuovere un’efficace politica a favore dei Centri Storici, incentivando organici piani finalizzati al loro recupero fisico e valorizzazione, ma anche e soprattutto alla loro rivitalizzazione.

    La predetta legge regionale, infatti, “promuove la valorizzazione del patrimonio storico, artistico, culturale ed ambientale, attraverso la salvaguardia della presenza antropica, in quanto presupposto per la conservazione dell’identità storico-culturale dei centri stessi”. Ciò vuol dire che, per recuperare un insediamento storico, non è sufficiente restaurare e ristrutturare tutti i suoi edifici e spazi, ma è necessario far seguire a detti interventi attività capaci di riportare in essi la vita, le occupazioni, i servizi sociali, amministrativi, commerciali, ecc.

    È una normativa varia e complessa, forse ambiziosa, ma sicuramente capace di dare risposte positive all’istanza di attenuazione dello spopolamento in atto.

    I contesti di riferimento (i Centri Storici) sono caratterizzati da un’estrema fragilità e da un’elevata complessità, soprattutto nel momento in cui si percorre la strada dell’intervento integrato, in cui si riscontra la presenza contemporanea di una pluralità di funzioni (residenziale, terziario, urbanizzazioni primarie e secondarie, ecc.), di tipologie di intervento (restauro, recupero, riqualificazione, ristrutturazione, manutenzione ecc.), di soggetti pubblici e privati con le relative risorse economiche, culturali e organizzative.

    La legge in questione indica nel Programma Integrato di riqualificazione urbanistica, edilizia ed ambientale, già individuato nella legge regionale n. 3 del 19.02.1996, lo strumento capace di perseguire gli obiettivi e le finalità sopra richiamate.

    Esso è, infatti, uno strumento flessibile per intervenire rapidamente e organicamente in contesti edificati di particolare complessità, quali sono i Centri Storici, ma è anche  innovativo, in quanto prefigura un nuovo modo di fare urbanistica.

    Innanzitutto, con esso si passa da un sistema di pianificazione di stampo dirigistico ad una pianificazione di tipo strategico, attuativo, nel senso che non ci si troverà, non di fronte ad una serie di vincoli, prescrizioni, standard e parametri da rispettare, bensì di fronte a ben determinati interventi da realizzare, per i quali sono definiti il come, il quando e il quanto, nonché la certezza dei tempi, dei costi e dei risultati, superando la separazione tra previsione e attuazione.

    Nel Programma fa la comparsa, per la prima volta in uno strumento urbanistico, la concertazione pubblico-privato. Elemento importantissimo nei processi di trasformazione del territorio, in quanto nel P.I. la gestione delle trasformazioni edilizie ed urbanistiche di un determinato contesto è concepita non più come un modello astratto, definito a priori da chi ne detiene la competenza istituzionale, bensì come convergenza di interessi diversi che devono comporsi in unica strategia di recupero e di riqualificazione del contesto interessato.

    E’ previsto, quindi, il coinvolgimento dei privati, ritenendo che la consultazione, nel tener conto delle preferenze espresse dai cittadini, vada oltre la semplice comunicazione.

    Altro significativo elemento di innovazione è la comparsa in uno strumento urbanistico dell’economia, da sempre estranea all’urbanistica classica, tradizionale.

    Il Programma Integrato va, infatti, sviluppato anche in termini economici con particolare riferimento alla verifica, in termini scientifici, dell’attuabilità dell’ipotesi di assetto prefigurata e all’interesse della collettività agli interventi previsti dal Piano. Se il privato, infatti, ha coscienza e conoscenza dei termini di guadagno, suoi e del pubblico, sicuramente si rivolgerà al Programma con meno diffidenza e forse con interesse.

    In Campania, pertanto, le norme che possono contribuire a trovare una via di soluzione in merito all’abbandono dei Centri Storici ci sono; vanno applicate, favorendo l’incentivazione di adeguati programmi di valorizzazione e rivitalizzazione. Ciò, a mio avviso, può verificarsi a condizione che:

    1) la Regione torni a reinvestire sulla legge n. 26 del 18.10.2002 sia in termini di supporto tecnico e amministrativo sia in termini economico-finanziari;

    2) gli Amministratori pubblici, responsabili delle scelte in ordine alle strategie di sviluppo,  puntino sulle politiche di riqualificazione urbanistica, edilizia e ambientale dei Centri Storici, abbandonando l’idea dell’accaparramento del singolo finanziamento (poco, maledetto e subito!), e considerino la programmazione non come un vincolo, come un qualche cosa che fa perdere tempo, ma come la condizione favorevole allo sviluppo delle collettività e al reperimento di risorse.

    In altri termini, c’è l’esigenza di predisporre strategie di conservazione urbana innovative, tenendo presente che il recupero dei Centri Storici non si attua attraverso interventi slegati, conseguenti a sporadici finanziamenti che i Comuni riescono ad ottenere, bensì sulla base di un preventivo progetto complessivo che razionalizzi gli interventi e ne detti una gerarchia, in relazione  alle necessità dei residenti e allo stato degli immobili e degli spazi urbani.

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