Pensare a un mondo in cui tutti possano trovare piena realizzazione attraverso un lavoro dignitoso, favorendo la crescita economica del proprio Paese con l’attuazione di un duraturo equilibrio tra tecnologia, nuove professioni, sostenibilità e vita privata, comporta un grande sforzo immaginativo.
La pandemia e la conseguente crisi economica non solo hanno influito sull’aumento della disoccupazione e dell’inattività su scala mondiale, con un forte divario di genere, ma hanno anche acuito le forme di sfruttamento dei lavoratori. Forse, un giorno potremo osservare questi eventi ricorrendo al cannocchiale rovesciato del pirandelliano dottor Fileno, dissolvendo in immagini piccole e lontane ogni dolore, incertezza e privazione del presente.
Per il momento, però, dobbiamo accontentarci di osservare la realtà attraverso una lente nitida che ci mostra le attuali storture del mondo delle professioni: durante l’emergenza sanitaria abbiamo assistito alla diminuzione dei posti di lavoro e al tempo stesso all’aumento delle ore lavorative per chi ha mantenuto il proprio impiego, obbedendo alla parola d’ordine “flessibilità”.
La flessibilità è diventata sinonimo di stress e di perdita di diritti: ore senza sosta trascorse davanti a uno schermo di un computer per tutti quei lavoratori che operano in smartworking e che così hanno smarrito il confine tra casa e luogo di lavoro; l’imperante moda del “lunch and learn”, compiaciuto strumento di formazione che, di fatto, priva il lavoratore della sua pausa pranzo; svolgere le proprie mansioni sotto continua minaccia di licenziamento; accettare retribuzioni che ledono la dignità dell’individuo; sentirsi negare contratti regolari, il riposo settimanale o le ferie; questi sono solo alcuni sconcertanti esempi di una realtà complessa che testimonia il persistere dello sfruttamento professionale.
Dunque, se la pandemia ha acuito le aberrazioni lavorative, che cosa accade quando l’etica del duro lavoro è talmente radicata in un Paese da indurre le persone a sacrificarsi fino allo stremo?
E’ il caso del Giappone, Paese che ha conosciuto il suo decollo industriale nel Secondo dopoguerra. Nella cultura nipponica lo spirito di collaborazione e di sacrificio individuale permettono di stabilire nei luoghi di lavoro un forte legame tra i lavoratori e l’impresa stessa: il successo di un’azienda è anteposto a quello individuale, perciò i lavoratori svolgono numerose ore di straordinario al mese, spesso non retribuite, e si limitano a chiedere pochi giorni di ferie all’anno.
Tali valori culturali, combinati con un tasso di associazionismo sindacale notevolmente inferiore rispetto agli Stati industrializzati occidentali, aiutano a comprendere il motivo per cui la morte per troppo lavoro, il “karoshi”, sia un fenomeno generalmente accettato nella società giapponese. A partire dagli anni Ottanta, infatti, migliaia di cittadini giapponesi hanno perso la vita a seguito di ictus e infarti, provocati dallo stress accumulato nei luoghi di lavoro, o hanno scelto il suicidio come via di fuga a una vita scandita esclusivamente dall’eccessivo lavoro.
Se è vero che nella vita professionale di ogni individuo presto o tardi si manifesta l’esigenza di trovare un giusto equilibrio tra l’impiego e la propria vita privata, allora non c’è da stupirsi se, a seguito della pandemia, anche nel Paese del Sol Levante si sia cominciato a dare un peso maggiore al “work life balance”.
A maturare una simile consapevolezza sembra essere giunto anche il governo di Yoshihide Suga che, nel Piano economico annuale, ha inserito la possibilità per le aziende di far scegliere ai propri dipendenti se lavorare 4 o 5 giorni alla settimana in modo da contrastare i decessi per superlavoro, migliorare la produttività e favorire una maggiore attenzione alla sfera famigliare dato che il Paese soffre del problema dell’invecchiamento della popolazione e del crollo delle nascite.
A Tokyo alcune aziende hanno già sperimentato la riduzione della settimana lavorativa sotto forma di test di prova, ma la proposta dell’esecutivo di Suga è una vera e propria scommessa: se questo progetto sarà vincente in termini di produttività, forse il premier giapponese riuscirà a recuperare il consenso dell’opinione pubblica calato a causa delle difficoltà emerse nella gestione della crisi pandemica e delle Olimpiadi.
di Ilaria Lembo