C’è un luogo dove, immancabilmente, mi fa piacere accompagnare amici e conoscenti che con me risalgono la Valle Del Calore fino al mio paese natio, Piaggine.
C’è un posto dove, con nostalgia, mi fa piacere fermarmi ogni qualvolta ne ho la possibilità quando risalgo a piedi o in auto la strada provinciale 388 che porta al Cervati, il monte che sovrasta i pascoli dove i miei antenati pastori accudivano il gregge.
C’è un luogo dove, spesso, interrogo la memoria per farmi trasportare indietro nel tempo fino all’inizio della mia esistenza, il 20 dicembre del 1955.
È il “Ponte”, il borgo storico del paese raccolto sulle rive del fiume Calore.
È qui che il fiume, dopo aver raccolto le acque provenienti dalle varie sorgenti che sgorgano alle pendici a nord del monte, fa il suo ingresso nel consesso urbano e, lanciandosi con vigore con un salto a “cascata”, inizia la sua corsa verso il mare attraversando l’intera Valle che porta il suo nome.
Il “Ponte” è stato anche il passaggio obbligato per centinaia di pastori che risalivano quotidianamente verso gli spazi destinati a pascolo a piedi lungo la via Agricola, a cavallo o solo per passare dall’altra parte del centro abitato.
L’abitato che si trova al di là del ponte, costituisce il nucleo più vetusto del paese di “Chiaine”) che aveva anche due chiese, quella di S. Pietro e di S. Simeone. La prima recentemente restaurata, l’altra passata a miglior vita!
Nella casa che viene in faccia a chiunque decide di intraprendere la salita verso il monte lungo il tratturo che passa per Santo Simeone, passa di lato all’Abetinella e arriva all’Acqua dei Cavalli, nacqui a metà del secolo scorso.
Si tratta di un’abitazione costituita da tre stanze sovrapposte l’una all’altra collegate da una scala. Il balcone di quella più in alto e che sovrasta la “Palata”, lì sono nato.
La “Palata” era la lingua d’acqua che, in base alla portata del fiume, si allunga e si ritira; rumoreggia nella caduta per abbattersi in un punto, più o meno, distante dalla parete rocciosa che costituisce il salto verso il vuoto da riempire e sopravanzare.
Al “Ponte” sono vissuto e cresciuto fino all’età di 9 anni, quando la mia famiglia, nel 1964, si spostò nella parte alta del paese, in via Roma, oggi G. Ricci, per trovare più spazio e avvicinarsi al “centro” dove si era trasferita, gradualmente, la vita politica, economica e sociale della comunità.
Nello spazio davanti alla casa, che si allungava oltre il “Ponte”, ho mosso i primi passi e sono cresciuto libero di andare in ogni direzione e di entrare in ognuno dei portoni che si affacciano lungo la Via Pescatori e per i gradini che conducono alla chiesa di San Pietro lungo la via Agricola.
Appena in grado di muovermi in autonomia, mi spostavo fino a casa dei miei nonni materni, Antonio e Antonia Cavallo, dove mi rintanavo quando mia madre, Giuseppina, risaliva al “Fosso”, al Cerro Grosso o al “Lago” dove la mia famiglia coltivavano patate e grano destinati all’autoconsumo.
Sulla riva destra del fiume correva un altro tratturo, oggi via Lungo Calore. A destra vi si affacciano i lati “B” delle abitazioni costruite su Corso Umberto che risale verso il paese; sui terreni che costeggiano il fiume i “Chiainari” avevano ricavato gli orti che erano riserve di ortaggi e frutta a portata di mano per la poca distanza da casa. C’era anche un mulino e un frantoio.
Vicino al “ponte canale”, ancora piccolissimo, mi avventurai da solo creando apprensione per i miei che pensarono al peggio … mi ritrovò Nicola, un cugino di mia madre, che mi riportò a casa.
Cominciai a sganciarmi in modo sistematico dal “Ponte” quando iniziai ad andare a scuola materna, gestita dalle suore, e situata nel nuovissimo edificio scolastico voluto “fortissimamente” dal sindaco in carica nel dopo guerra, Custode Petraglia.
Ma il tempo “libero” lo trascorro in un raggio di poche centinaia di metri dal fiume: i miei nonni materni abitavano in via G. Ciniello, una stretta via animata dall’allegria di ragazze piene di vita che mi coccolavano senza soluzione di continuità.
In quel tempo, le diverse anime che componevano il paese si confrontavano sia politicamente sia culturalmente. Le ricadute delle scelte dei grandi, a “cascata” ricadevano anche sui piccoli che, addirittura, si confrontavano in vere e propri confronti fisici con scaramucce che volevano imitare le mitiche gesta dei “Ragazzi della vi Pall” che qualcuno di noi aveva letto.
Altro confronto che coinvolge tutti i “vicinati” si concretizza al tempo di Natale con le “focare” che venivano accese la notte di Natale e diventavano un ritrovo al caldo fino all’Epifania. Piccoli e grandi eravamo impegnati a fare la questua di legna casa per casa e ad organizzare a spedizioni verso l’Abetinella per sradicare i resti di piante abbattute del vento o a raccogliere tronchi erranti sfuggiti al “rastrellamento” di uomini e donne che battevano i boschi per accantonare la legna per l’inverno.
Il mondo al quale la mia generazione era stato destinata era questo! Sia pur poteva essere in grado di contenere tutti fisicamente, non aveva altrettanto spazio per dare sfogo ai nostri sogni.
Io stesso, dopo un anno passato ad ambientarmi in via Gaetano Ricci, dissi “sì” alla proposta di Don Giuseppe Loffredo, l’allora parroco di Piaggine, che mi propose di entrare in seminario a Vallo della Lucania.
Altri restarono a frequentare la nuova “Scuola Media Unificata” che stravolge il concetto stesso di istruzione in voga fino ad allora: non più solo funzionale al mestiere che, per tradizione o per scelta della famiglia, si pensava potesse garantire un lavoro stabile e redditizio.
Dopo tre anni ritornare a Piaggine per frequentare il “Magistrale” appena istituito ma, a quel punto, il processo di de radicalizzazione, iniziato con il trasferimento dal “Ponte” ai “Purcili”, all’età di 10 anni era compiuto. io appartenevo già ad una dimensione diversa che mi ha costretto ad inseguire me stesso che non perdeva occasione per andare sempre più oltre il luogo al quale il fato mi aveva destinato!
Bartolo Scandizzo