Per noi ragazzi d’allora, cresciuti per strada ad abituati ad inventarci i giochi per passare il tempo, era una vera sofferenza dovere parlare in italiano anziché in dialetto. Allora (40/45 anni fa) non esisteva Internet perché non esistevano ancora i Computer, per la verità non esistevano nemmeno le calcolatrici. Era fortunato chi possedeva un televisore a casa (ovviamente in bianco e nero) anche se non c’era molto da vedere sull’unico canale che trasmetteva qualcosa (il Primo) oltre alla TV dei ragazzi che andava in onda alle 17,30. E’ superfluo aggiungere che non esistevano Play Station o altri giochi simili. In poche parole non eravamo, come accade oggi, in collegamento col mondo intero. Il nostro mondo era il nostro paese, i nostri amici e, soprattutto, i nostri cari i quali, nella maggiore parte dei casi, erano semianalfabeti se non addirittura del tutto. Le nostre vacanze erano costituite dal fatto di non andare a scuola in estate, ed era già tanto! Questo per fare capire che era già difficile parlare in italiano per chi era abituato o, in qualche caso, addirittura costretto dalle condizioni di vita, a parlare esclusivamente dialetto. Figuratevi con quale animo accettavamo l’imposizione di dovere parlare in italiano: un vero supplizio. Però, obtorto collo, dovevamo fare di necessità virtù. Guai a chi rimaneva in possesso del famigerato “numero” che altro, poi, non era che un numero della tombola che passava di mano in mano ogni volta che veniva detta una parola in dialetto in presenza del momentaneo possessore del numero oppure di qualcuno che ascoltava e faceva la sua opera di delazione. Guai perché il professore finale (il numero si poteva passare solo durante la passeggiata giornaliera) era costretto in punizione durante la ricreazione e rimaneva quindi senza prendere parte ad alcuna partita di ping pong, calcio balilla o altro. I prefetti delle camerate dovevano controllare che tutto ciò avvenisse ed erano (salvo qualche rarissima eccezione) inflessibili. Ricordo una volta che un compagno voleva per forza “passare” il numero a me, reo di avere detto che mi faceva male l’appendicite, perché, a suo dire, si diceva appendice e non appendicite. Visto che fu inutile il mio primo tentativo di ricorso (al Prefetto della camerata) ed anche il secondo in appello (al Prefetto d’ordine che oggi, purtroppo, non c’è più) fui costretto a fare ricorso in Cassazione (consultazione del vocabolario una volta tornati in Seminario) per potere avere ragione, unitamente alla promessa di non fare parola con nessuno, onde evitare maliziosi commenti. Cosa che io puntualmente feci anche per evitare ritorsioni. Si racconta addirittura, ma qui siamo nella leggenda, che ad un seminarista di Ceraso fu chiesto da dove venisse. Ebbene! Per non vedersi affibbiare il numero lui balbettando rispose: “Sono di Ciliegio.”
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