Era consuetudine che ogni anno, il 29 novembre, per le strade del paese (e anche di qualche rione cittadino) circolassero gli zampognari per la “Novena dell’Immacolata”. Era un rito preparatorio all’evento più atteso dell’anno, il Natale per il quale Rocco Scotellaro, nella poesia “I poveri”, scriveva: “E’ bello fare i pezzenti a Natale / perché i ricchi allora sono buoni: / è bello il Presepe a Natale / che tiene l’agnello in mezzo ai leoni”. Pochi versi, amari, dettati dall’esperienza personale della diffusa ingiustizia sociale. Da quel lontano Natale del 1943, in cui Carlo Levi, a Firenze, cominciava a scrivere il suo romanzo “Cristo si è fermato a Eboli”, sono trascorsi diversi decenni, i quali, alla luce dell’evolversi della società, sembrano una eternità. La ricostruzione post bellica, il boom economico, le crisi energetiche con le domeniche a piedi, i tristi anni delle stragi, delle “brigate rosse”, la faticosa utopia di una ripresa economica e sociale, le turbolenze degli scioperi sintomo di un malessere diffuso, la distruzione giudiziaria di una classe politica con la fine di un sistema di governo definito “prima Repubblica” e quanto altro gli italiani hanno vissuto in questi anni all’arrembaggio del terzo millennio, sono stati sempre affrontati all’insegna della volontà e capacità di un popolo che “anche questa volta ce la faremo”. E poi il nuovo secolo, il nuovo millennio con quanto l’integrazione europea ci ha comportato con l’introduzione della nuova moneta e, infine, il “Covid”, una pandemia che ha isolato gli individui persino nelle proprie abitazioni, pur nella consapevolezza che anche questa volta si sarebbe venuti fuori. E ancora una volta, quasi a voler esorcizzare le difficoltà del momento, si diceva: “Dopo nulla sarà come prima… ” con una punta di speranza… tramutatasi in tristezza quando il “dopo” ha mostrato ancora più problemi di prima. Due anni in cui persino il Natale, nonostante la sua particolare, è stato vissuto senza il suono degli zampognari. E ancora quest’anno sono rare le coppie che circolano per le strade del paese o del rione. Quel suono struggente della zampogna e quello squillante della ciannamella, intervallato dal canto della novena, sono un raro ricordo. «Oi verginella figlia di Sant’Anna / in seno lo portasti il Bambinello Beat’a chi la fa la devozione / a Mamma Immacolata concezione / Venite tutti quanti in compagnia / a visitar la Vergine Maria», canta il ciannamellaro, nella versione degli zampognari abruzzesi incontrati per caso nella Casa Editrice di Pietro Graus a Napoli. Tutto è cambiato da quando i frati francescani, seguendo la regola di Francesco, poverello d’Assisi, mangiavano pane di “colori diversi, a tozzi non mai uguali, perché era il pane della questua”… Quei frati, d’inverno, non portano più i sandali a piedi nudi. In una intensa, bella considerazione sul Natale, Padre Davide Maria Turoldo scriveva: «Nessuno più appare all’orizzonte: nulla che indichi l’incontro con la carovana del Pellegrino; non uno che dica in tutto l’Occidente: “Nel mio albergo, sì, c’è un posto!” Non un segno di cercare oltre, un segno che almeno qualcuno creda, uno che attenda ancora colui che deve venire… Non è vero che l’attendiamo: non attendiamo più nessuno!» E si erge sul continuo blaterare, sui rumori della guerra, le distrazioni del consumismo, gli affanni di una voglia di ripresa sociale, di relazioni (vere?) la voce solitaria del Papa, che reclama giustizia, riflessione, meditazione su quanto l’uomo sta facendo in nome di un qualcosa che esiste per un attimo e poi scompare, senza lasciare nulla in eredità. Fermate la guerra, dice Papa Francesco, rispettate il mondo preservandolo dalla catastrofe, stendete la mano verso chi ha bisogno, verso chi fugge cercando la vita altrove. «L’inverno ci stringe d’assedio nella nostra solitudine… da certi inverni si esce irreparabilmente invecchiati… L’età del freddo si fa sempre più prossima e certa. La nostra solitudine si restringe». Così annotava Leonardo Sinisgalli nei suoi “quaderni”. Le luminarie, che addobbano le città e i paesi, illuminano scene di frenesia, di un andirivieni senza tempo, senza sosta… senza valore. Forse sarebbe salutare ripensare a quella religione dei poveri così cara al poeta di Tricarico vissuto lo spazio di tre decenni, intensi, ricchi di amore per la sua terra e la sua gente. Bisognerebbe recuperare una vena di segrete memorie, forse antiche, ma certamente autentiche in un mondo distratto che non riesce neanche più ad ascoltare – perché assenti o lontani – i suoni del Natale che ci giungono con le raffiche di vento dicembrino. Da una casa lontana giunge il canto di “Bianco Natale”: «E viene giù dal ciel, lento / Un dolce canto ammaliator / Che mi dice, “Spera anche tu / È Natale, non soffrire più”. / Alza gli occhi guarda lassù / è Natale non si soffre più». Ritorna la speranza, sembra risentire il suono conciliante della zampogna e quello squillante della ciannamella, mentre seguendo un rito ormai consolidato, con l’albero illuminato, alla mezzanotte in ogni casa si “mette” il Bambinello nella mangiatoia. «Certo verrà – ricordava Padre Davide Maria Turoldo – continuerà a venire, a nascere ma altrove, altrove…».
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