Un luogo senegalese che amo molto è il mercato, meta d’incontro e di scambi commerciali. Per me i mercati sono, soprattutto, uno spazio vitale: le voci che si sovrappongono, i colori accesi dei prodotti sui banchi, le tonalità vistose delle merci esposte nelle botteghe artigiane, il miscuglio di odori forti (di spezie, alimenti ed animali) e i caratteristici abiti con le tinte sgargianti indossati dalle donne. Trovo che gli accostamenti audaci delle stoffe senegalesi riproducano i contrasti del loro quotidiano. Quando, ad esempio, proprio al mercato, incontri i bambini Talibè che (magari affamati, con gli abiti consunti, senza neppure posare i secchiellini per l’elemosina) smettono di mendicare e, almeno per un attimo, come qualunque altro bambino, si ritrovano a giocare.
Visitando i mercati di Dakar ti rendi conto che il Senegal è un Paese in fermento, dal punto di vista culturale, turistico e commerciale. Nel 2014, dopo decenni di crescita modesta, il governo senegalese ha adottato un piano di sviluppo, l’Emerging Senegal Plan, finalizzato a incentivare progressi economici e sociali. Negli ultimi anni la Banca Mondiale ha riscontrato una notevole crescita economica, dovuta all’attuazione del piano nazionale e, conseguentemente, agli interventi che hanno promosso gli investimenti pubblici e l’attività del settore privato.
Il quadro macroeconomico del Senegal è stabilmente in crescita ma è ancora necessario intervenire sull’aumento del livello del debito e sulla mancanza di liquidità, condizioni certamente non agevolate dalle politiche economiche imposte dalla Francia.
La moneta del Senegal è, infatti, come in altri 14 Paesi africani, il Franco CFA che, all’origine (nel 1945) era l’acronimo di Franco delle “Colonie Francesi d’Africa”, oggi di “Comunità Finanziaria Africana”.
La valuta è vincolata all’Euro, secondo una parità fissa stabilita dalla Francia e i Paesi che l’adottano sono obbligati a depositare il 50% delle loro riserve valutarie presso il Tesoro di Parigi.
I sostenitori del Franco CFA (soprattutto economisti francesi ed esponenti dei governi e delle classi dirigenti dei 15 Paesi) ritengono sia un sostegno imprescindibile per l’economia africana che la moneta (vincolata all’Euro) resti stabile e garantisca prezzi costanti, evitando instabilità ed eccessive variazioni valutarie (come gli aumenti dell’inflazione).
I contestatori, invece, rilevano come l’indicizzazione (che rende la moneta forte) se da una parte agevola le importazioni, dall’altra penalizza notevolmente l’esportazione dei prodotti africani, creando quella che l’economista del Benin, Kako Nubukpo, ha definito una «schiavitù valutaria», riferendosi anche all’obbligo per gli Stati sottoposti al Franco CFAdi trasferire la metà delle proprie riserve al Tesoro francese.
Inoltre, lo stesso quotidiano economico francese Les Echos ha evidenziato l’ulteriore aggravio che comporta per i Paesi africani essere sottoposti, in modo arbitrario, alla disciplina (e alle conseguenti sanzioni) concernente il bilancio in vigore nell’Unione Europea, ovverosia l’obbligo di rispettare il vincolo del 3% nel rapporto tra deficit e Pil, previsto per le economie decisamente più agiate, come la nostra.
Difficile smentire che tali condizioni – univocamente imposte agli Stati africani – non costituiscano per loro un limite allo sviluppo economico e uno strumento di controllo da parte della Francia.
Fortunatamente i Paesi della zona CFA sono riusciti, nel corso dei decenni, a collaborare tra loro proficuamente, coordinando i propri regimi fiscali e doganieri, attuando politiche comuni di disciplina valutaria e di bilancio, sforzo condiviso che un giorno forse consentirà loro di utilizzare una moneta comune africana.