di Rino Mele
Partiamo dalla fantastica Scuola al Corso Vittorio Emanuele a Napoli, realizzata cinquant’anni fa da Riccardo Dalisi, piani sovrapposti e distanti, che sembrano volare fermi, leggeri, il cemento diventato senza peso. L’idea nasce nel dialogo con Pica Ciamarra, come il progetto della Scuola dell’obbligo a Bologna: edifici che diventano la strada d’appartenenza, ambienti che trasformano chi li abita, evocando dallo stesso lato la visione della maschera e il concavo nascosto alla sua apparenza. Sorprendente in Dalisi, sempre, la mancanza di scarto, distanza, tra progetto e realizzazione. Il progetto, per lui, è comprensivo del suo trasformarsi: non si esaurisce nella fase preparatoria, nella luce mentale di un fare ancora trasparente attraversato da irresistibili forze lontane, ma nell’oggetto realizzato continua a esprimere la tensione originaria che appare così, già essa, concreto modello di un’inconsumata astrazione. Dovunque interviene, dagli impegni sociali del Rione Traiano alle opere più complesse, Dalisi recupera il livello iniziale di un’istanza semiotica primaria che restituisca valore ai segni minimi: la linea tracciata da una matita, la matita stessa, le dita che la trattengono, la sospensione con cui lo sguardo segue quello sforzo bambino sul foglio. Racchiusa nell’abside tenera della mano, la stanchezza vigile dello sguardo punge oltre l’impura presenza del mondo per richiamarsi sempre a una grammatica delle origini. Così, il progetto (lo schema tracciato sul foglio, la voluta imprecisione di un pensiero aperto a successive correzioni) si trasferisce in un manufatto con la pretesa che non s’allontani dalla sua ideazione se non nei materiali usati. Il cemento, la pietra, il legno continuano a somigliare alla carta dei suoi disegni, ne trattengono la memoria. Ora presenta a “Linee contemporanee” le 45 ceramiche realizzate alla Fornace Falcone e pensate per essa (sono ormai otto le stazioni di questa sequenza d’arte ideata da Valerio Falcone). Rientrano anch’esse, queste ceramiche, in quel lavoro puntiforme, aleatorio, minimale e assoluto che Dalisi ha dedicato all’arte come architettura, dentro cui s’è sempre immerso, mai cercando di sfuggire all’incendio freddo delle contraddizioni sociali. Nel mostrare queste sue opere, lo splendore dei lucenti colori, non c’è nessun tentativo da parte dell’artista di meravigliare oltre la naturale certezza che anche un piccolo frammento già porta con sé. C’è una sacralità necessaria (come in ogni sua opera), una francescana esaltazione dello sguardo e di ciò che è guardato: il capovolgimento della facile simmetria nella misura sconosciuta di una condizione che la precede. Ancora una volta, e con una sintesi forte, Dalisi ripropone il suo impegno politico, quel rifuggire da ogni retorica e ammiccamento, da ingannevoli torsioni culturali che ti lasciano al punto di partenza. Sa che quel grande incendio cui è stata sottoposta ognuna di queste sue opere è il destino di tutto ciò che siamo stati e siamo: forse, anche per questo, sulla superficie di esse traccia solo quel poco che ognuno -già guardando- potrebbe continuare: elementi di sollecitazione percettiva, come l’inizio di un progetto architettonico che esibisca le sue viscere, l’ombra feroce dell’inconscio, la purezza sgradevole della grammatica delle origini: un grumo, una traccia filamentosa, un singhiozzo di pietra, l’addizione di due elementi che non si conosceranno mai. Tra il macrocosmo e la vita delle molecole, ciò che costruiamo -sembra dire Riccardo Dalisi- deve unire e non separare, appartenere alle parole mute e mai all’addobbo del potere e del possesso. Le 45 ceramiche sono tanti minimi progetti architettonici, partendo da essi potremmo costruire un porto, un argine, una siepe, un muro, la linea d’alberi dentro cui proteggere qualcosa che grida e non udiamo, l’ansia che si ripete, il tormento, la paura e il riso inquieto.