Un giovane chiama a gran voce: “Rufo, Rufo, muoviti; dobbiamo ripartire per Cirene, nostro padre Simone ci attende alla porta dei giardini”. Al sentire questo nome Giovanni sobbalza. Ricorda, infatti, che le donne nei pressi del Calvario gli avevano riferito di un uomo con questo nome obbligato ad aiutare il Maestro a portare la croce. Si avvicina a Rufo e lo prende per il braccio. Questi cerca di divincolarsi. Giovanni con un timbro convincente della voce lo invita a fermarsi. Il ragazzo ubbidisce e l’apostolo prosegue: “Perché non ci porti da tuo padre?”
“Perché dovrei farlo?” Grida il giovane tra il provocatorio e l’indispettito. “Mio padre è stato obbligato a portare la croce, non è un discepolo del Nazareno crocefisso venerdì”. La reazione è collegata alla paura in famiglia per un’eventuale vendetta dei sommi sacerdoti e degli scribi per quanto Simone aveva fatto reggendo la croce fino al Golgota.
Chiarito l’equivoco, Giovanni ribatte: “Non aver timore, siamo discepoli di Gesù e vogliamo sapere da tuo padre quali sono stati gli ultimi attimi della sua vita.”
A queste parole Rufo si ferma, incoraggiato anche dall’arrivo del fratello Alessandro. I due, convinti dalla reiterata richiesta dei due apostoli, decidono di accompagnarli alla carovana della quale fa parte anche la loro famiglia. Simone aveva sposato una donna della diaspora di origine greca e si era trasferito a Cirene per dare maggiori opportunità ai due figli, che voleva avviare al commercio; tuttavia, da pio israelita, ogni festività di Pasqua ritornava a Gerusalemme per consumare il pasto rituale.
Le presentazioni sono brevi. Tommaso gli chiede di riferire tutto quello che sa sul tratto di strada percorso dal Maestro dal Pretorio al Golgota. Simone risponde di buon grado, convinto dai particolari della presentazione che i due sono veramente discepoli di Gesù. Egli ha sentito parlare la prima volta del Nazareno proprio venerdì 14 di Nisan. Mancava poco all’ora sesta e aveva notato una particolare animazione nei pressi della porta dei giardini: soldati, una folla urlante, in lontananza delle donne non di Gerusalemme a giudicare dalla foggia dei vestiti. Per evitare fastidi e pericoli alla famiglia, egli aveva cercato riparo nei pressi di un uscio di casa.
“La processione di dolore – riferisce il cireneo – si snodava per le strade principali perché i romani utilizzano le esecuzioni per impartire una lezione a tutti coloro che pensano di ribellarsi. Il breve itinerario dal Pretorio al Golgota per Gesù era diventato un’impresa impossibile; aveva evidente bisogno di aiuto per reggere il legno. Nei pressi della porta dei giardini, attraverso la quale il corteo avrebbe abbandonato la città in direzione nord-ovest, egli cadde sotto il peso del palo trasversale. Gli effetti della bestiale flagellazione lo avevano privato delle ultime forze. I soldati, timorosi di qualche imboscata e nella consapevolezza che tra la folla si potessero nascondere amici dei banditi pronti a sfruttare qualsiasi opportunità per tentare un’impresa disperata ma di grand’efficacia propagandistica, come liberare i compagni dalla giustizia romana, costrinsero il primo passante in condizione di farlo a portare il patibulum. La sorte aveva stabilito che dovessi essere io. Mi vidi reclutato a forza, senza possibilità di poter rifiutare; in quel frangente sarebbe stato poco saggio. Non ero entusiasta della cosa. Malvolentieri mi piegai al comando del soldato per evitare guai peggiori, mi caricai così sulle spalle il palo per portarlo dietro a Gesù. Furono metri di paura e di grazia nello stesso tempo, che non dimenticherò mai. Osservai i tre condannati. Il primo sprizzava odio da tutti i pori; dai suoi occhi uscivano lampi di disprezzo per tutti e dalla bocca le bestemmie più oscene. Il secondo procedeva in silenzio; ebbi la sensazione che egli non condividesse l’atteggiamento del compagno di avventure e di omicidi. Gesù procedeva a stento, curvato dal dolore e dalle piaghe, eppure sembrava che pregasse. Mi avvicinai a lui e udii reiterare queste parole mentre il suo passo si faceva sempre più tardo e stanco: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
“Veramente una strana reazione! L’imbarazzo per la situazione nella quale ero precipitato si trasformò in occasione per cogliere le ultime parole di un condannato a morte certa. Mi avvicinai ancora di più e mi sentii dire «Grazie, grazie». Cosa rispondere a tanta gentilezza d’animo? Incominciai ad osservarlo più attentamente. Notai i tratti regolari del viso, pur se tra grumi di sangue e lividure per le percosse subite. Mi sembrò d’intravedere un abbozzo di sorriso, anche se la chiostra dei denti non scintillava di bianco, era arrossata dal sangue che sgorgava da ogni dove. Motivo di quel momento di umanità era il suo riconoscente sguardo per una donna che gli si era avvicinata per porgerli dell’acqua e per detergergli il sudore dal viso. Subito scacciata via dai soldati, ella era riuscita a portare un sollievo momentaneo e parziale al condannato, dal quale aveva ricevuto quel gesto di gratitudine. Cominciai a chiedermi se un uomo in prossimità di una morte così dolorosa e disonorevole potesse essere veramente un latro. Mi ricordai allora del titulus e mi sorpresi a pensare: che sia veramente un re? Volevo chiederglielo, ma fui distratto da un momento di ulteriore confusione: Gesù era caduto, esausto, sulle sue ginocchia. Un soldato col flagellum si precipitò per colpirlo alle spalle. Sarebbe stato inutile, non aveva più forza. Mi affrettai e con il patibulum feci scudo a quelle spalle impastate di polvere, sudore e sangue. L’osso di una funicella del flagellum mi colpì lasciandomi questo segno.” Nel dire ciò Simone si scosta la tunica dalle spalle per mostrarlo. Tommaso constata che la ferita si è appena rimarginata ed è in via di guarigione, ma il segno sarebbe rimasto indelebile.
“Non ricordo di aver sentito dolore”. Continua il cireneo. “Se ne ho avvertito, esso fu sopraffatto dal consapevolezza di aver risparmiato a Gesù quel colpo inutile. Poca cosa in raffronto alle sofferenze patite dal Nazareno durante la sua passione; ma l’unica che, concretamente, potessi fare per lui e l’ho fatta. Quel gesto è diventato la mia benedizione. Infatti, ogni volta che mi tocco la cicatrice, rivedo non il soldato che mi colpisce, ma lo sguardo indulgente, riconoscente ed amoroso del Maestro e ciò mi basta.”
“Il peggio per Gesù doveva ancora venire. Infatti, eravamo prossimi al Golgota. Lo attendevano la crocifissione, gli insulti e la morte. Io avevo terminato il mio compito. I soldati mi tolsero il legno dalle spalle e mi fecero indietreggiare. Ma non potevo più andarmene e lasciarlo solo. Forse il mio era l’unico sguardo amico in quella turba di forsennati. Dovevo rimanere se non accanto, almeno nei pressi per confortarlo con la mia presenza silenziosa. Mi fermai e fu per me la seconda benedizione perché sono diventato testimone di come muore un giusto.”
“I soldati, in una apparente resipiscenza dal baratro del sadismo nel quale erano precipitati, distribuirono del vino mescolato a mirra. Ricordo che Gesù ha rifiutato quella bevanda inebriante, dono di alcune donne dell’alta società che avevano acquistato ed inviato ai tre condannati a morte un intruglio alcolico per intontirli e rendere più sopportabili le sofferenze dell’imminente crocifissione. Il boia procede col condannato posto a sinistra del terzetto. Fa sistemare lo zelota sulla trave che ha trasportato dal Pretorio, gli distendono le braccia e afferrano il polso. Il chiodo penetra con forza nella carne; zampilla sangue, mentre un urlo gela i cuori. Il dolore è sconvolgente, insopportabile. Gesù assiste alla crocifissione e prega per l’infelice, ma il condannato non se n’accorge. Il chiodo è penetrato in un reticolo di nervi lacerandolo. Lo spasimo si ripete moltiplicato quando tocca all’altro braccio. Il disgraziato contorce la bocca in un urlo disumano, mentre i soldati sollevano la trave mostrando alla folla un fantoccio lacerato dalle scariche di dolore causate dai muscoli in tensione e impegnati a trovare una posizione in grado di garantire l’apparente ristoro di una pena meno lacerante. Mentre lo zelota è distratto da questo tentativo, gli afferrano le gambe rattrappite dalla sofferenza; lo distendono immobilizzando i piedi l’uno sull’altro. Un terzo chiodo chiude il sadico e raccapricciante rituale aprendo un’altra fontana di sangue”.
“Alla vista di tanto strazio – commenta Simone – non capivo il motivo del singolare rifiuto della mistura di vino. Forse Gesù si era riproposto di bere il calice fino alla feccia e affrontare con mente vigile l’ultima fase della sua passione; non voleva i sensi annebbiati, aveva bisogno di pregare e sentire Adonai vicino. Una delle situazioni che più mi hanno colpito – continua l’ormai loquacissimo cireneo – è stato il differente comportamento dei due latrones. Erano combattenti per la libertà e nel loro fanatismo patriottico non si erano fermati di fronte all’assassinio. Uno dei due mostrava nei confronti di Gesù una mordace ostilità, che manifestava aggiungendo i suoi agli scherni dei soldati. A farlo imbestialire era soprattutto la motivazione della condanna: la rivendicazione regale nella titolatura ufficiale. Quel rex provocava anche i carnefici, i quali si davano ad una congerie di commenti ironici su un sovrano che aveva trovato degna esaltazione e giusto onore in mezzo a due assassini e, per questo, si era meritato l’indubbia distinzione della croce. Il condannato posto a sinistra del Nazareno tra gli spasimi del dolore, che gli annebbiavano la vista ma non gli toglievano la forza per gridare, invitava Gesù a fare qualcosa. Le grida diedero la possibilità al piccolo gruppo di sacerdoti presenti, ma a distanza di sicurezza per non macchiare la loro purità rituale, d’inserirsi nel dialogo blasfemo tra soldati e condannato. Ironizzavano sulla capacità del Nazareno di far miracoli. Uno di loro, presente nel Tempio quando Gesù aveva scacciato i mercanti, si lasciò scappare la frase «scendi dalla croce e ti crederemo». Ma il vociare tendeva a scemare; alcuni, forse pentiti, si allontanarono in fretta. Rimase soltanto chi doveva testimoniare l’avvenuto decesso al sommo sacerdote. Io era sempre più disgustato per l’insensibilità dei miei capi a Gerusalemme. Per repulsione contro quanto udivo, mi rivolsi a fissare il viso di Gesù. Allora notai che le sue labbra si muovevano; con un po’ di attenzione riuscii a decifrare il suo bisbiglio. Con mia sorpresa, egli ripeteva la frase che gli avevo sentito pronunciare mentre lo aiutavo a portare la croce: «Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno»”.
Il tetro rituale della crocifissione terminò dopo l’ora sesta. Simone di Cirene riferisce di aver notato che, mentre la tensione cresceva fino allo spasimo intorno ai crocifissi, un addensarsi di nuvole aveva coperto il sole: calavano le tenebre. Il tempo scorreva con intensa lentezza psicologica fino all’ora nona. Il cireneo ricorda con precisione il particolare perché il figlio Alessandro proprio allora aveva sollecitato la sua presenza in famiglia sottolineando appunto che s’era fatto tardi.
Simone riprende a raccontare immaginando di fare cosa gradita ai due apostoli nel riferire le ultime parole pronunziate da Gesù; è riuscito a sentirle e memorizzarle: le ritiene una preziosa eredità da citare e commentare. “Le forze di Gesù erano ridotte al lumicino, non pensavo che potesse pronunziare una sola parola, invece, a giudicare dal commento dei pochi sacerdoti rimasti nei pressi della croce, egli morì con un grido di preghiera sulle labbra citando il primo emistichio del ventiduesimo salmo. Il timbro di voce non era chiaro. Alcuni, equivocando, cominciarono a gridare che aveva invocato l’intervento di Elia; un soldato, che non comprendeva l’aramaico, scambiò il gemito per una richiesta d’acqua, consapevole che, tra le altre sofferenze, i crocifissi sono perseguiti dall’arsura per la febbre alta. Così morì Gesù, in solitudine, appeso in mezzo a malfattori e con la soldataglia che vociava sotto di lui. In verità, si è sparsa la voce che il centurione che comandava l’esecuzione abbia avuto un’esclamazione di stupore di fronte ad un uomo così straordinario, un sentimento di compassione misto a grande ammirazione di un pagano che non ha esitato ad affermare di trovarsi, forse, di fronte ad un uomo divino”.