“Una leggera pioggia (catturata) indotta a scorrere avvolta su se stessa ridotta a bruma fatta per ottenere scintilla”. Questa frase, che a mio avviso è bellissima poesia, l’ho trovata scritta sulle pareti del Museo d’arte contemporanea di Rivoli. Quando l’ho letta mi ha subito fatto pensare al mio fiume, il Calore. Dentro c’è la delicatezza della natura; è la potenza dell’idea che, per quanto improvvisa, non irrompe per caso. Come la scintilla, ha dietro di sé un universo da cui prende la sua forza. È anonimo il luogo dove sorge il Calore. La sua sorgente ha un nome che è tutto un programma: “Festola”. Solo un rivolo resta a testimoniare che lì, in quel luogo, nasce il fiume che ha fatto al storia della valle che attraversa e che oggi, solo in primavera può atteggiarsi a “padre” sfarzoso e potente con il suo andare fragoroso che l’amante del trekking riesce a sentire quando si avvicina al ponticello che facilita l’attraversamento della strada bianca che porta alle faggete del Cervati. Pochi fortunati hanno potuto ammirare le gole di rocce, un tempo disegnate dalla violenza vorticosa dell’acqua, oggi inghiottita da arida bocca in perenne ricerca di un refrigerio impossibile da ricreare. Tagli profondi ripieni di arbusti, nutriti dall’umida bruna, aiuta a nascondere nella vegetazione gli argini con strapiombi inaccessibili ma che lasciano intravedere tutta la forza del la natura che li ha stagliati. Agili anse (Maiorina, tondo, laghetto …) accarezzate da brevi rive e naturali “lettini” su cui generazioni di ragazzi hanno assaporato il bacio dell’acqua sul corpo nudo scrutato dagli altri a ricerca di sé per vincere il pudore non ancora al crepuscolo. Un tuffo, due bracciate, tre pietre pescate come coralli appenninici. A fare i maestri gli esempi dei grandi e l’istinto goliardico.
Più a valle, le pietre piatte strizzate da innumerevoli e amorevoli mani, su cui giovani spose, suocere e nuore, sorelle e prozie hanno battuto e ribattuto panni e vestiti. Ma la festa più bella era il lavaggio della lana per il primo, infinito, letto d’amore.
L’appuntamento era lì, sotto il palazzo dei Tommasini con il giardino pensile che dominava l’ultima ansa prima della “Palata” che rimescolava e gettava a valle le ansie puberali dei giovani “arditi” e gli slanci focosi delle promesse amanti. Il ponte segnava lo spartiacque tra la proiezione pastorizia del paese e quella contadina per il fabbisogno familiare. Verso il Cervati a caccia di pascoli per i greggi, verso la valle a dissodare colline per produrre olio vino e frutta di pregio. La processione mattutina con asini e armenti inizia va dal Ponte, con slancio caparbio per la gradinata di San Simeone che come un “Polifemo cristiano” contava e ricontava gli armenti, i pastori e i ligi “vualani” che si lasciavano dietro il paese pregustando già il ritorno della sera che il fiume annunciava con il suo fragoroso getto nel vuoto.
In esso la forza incalzante di una natura imprigionata ma non domata dalla sete di terre lontane che poco sanno dei rivoli che intonano note, mai le stesse, prima esili e poi in continenti di gloria in un estremo bisogno di essere protagonista in un salto nel vuoto con cui si consegna al mondo antropizzato dell’uomo. Ma anche il “Chiainaro” non si cura più dell’acqua che esce dalla voragine prodotta da infiniti salti. Gli occhi sono sempre rivolti a monte, lì dove nasce la corsa, dove infiniti ruscelli si cercano nei valloni in una corsa verso il primogenito fiume a convogliare le acque catturate del monte padrone che svetta più in alto del cielo.
Il Cervati, incantato dalle stelle, può solo ascoltare il frenetico scendere della linfa vitale cadenzato da intoppi e affluenze in superficie. Allo stesso tempo può assaporare la sensazione di vita che gli risale dalle sue viscere, il rinvigorire delle sorgenti alla ricerca di sbocchi di luce. Piaggine, però, forse perché protagonista del “fiumicidio” consumato in nome del progresso, non si cura del fiume dopo il ponte canale. Lo lascia andare per la sua strada, difficile. E il Calore va… Insegue il suo destino tentando l’impresa della resurrezione grazie a facoltosi compagni di viaggio con cui unirsi lungo la strada…
Oltre il ponte canale il Calore scompare dalla vergogna per rianimarsi grazie alle sorgenti del Festolaro e di Sant’Elena a Laurino. Oltre il ponte canale, il Calore si addentra in una “terra di nessuno” che pochi hanno avuto l’opportunità di esplorare. La vegetazione si fa fitta, gli argini si alzano e abbassano senza possibilità di potervi accedere se non a rischio della propria incolumità. Ma chi riesce a farsi largo fino alle gole del Festolaro, può cogliere sensazioni fuori dal comune. Il Calore, in questi posti quasi inaccessibili, si fa giustizia da solo nei confronti di un territorio che lo ha saccheggiato della sua linfa fino dalle sorgenti. Purtroppo bisogna registrare anche l’ennesimo sfregio alla natura in località “Pesconi “. Lo slargo da dove partono le strade che portano verso il Cervati e la grotta dell’Angelo, degno di ben altro uso, è stato utilizzato come discarica e oggi è un sito di trasferenza dove sono parcheggiati gli scarrabili per la raccolta temporanea dei rifiuti. Ma il vero affronto è il fatto che a Valle Dell’ Angelo non c’è depuratore e, pertanto, i reflui vengono scaricati direttamente nel letto del fiume che solo dopo l’incrocio con l’acqua proveniente dalla sorgente del Festolaro, si “ricompone” alla sua naturale funzione di corso d’acqua prima di affrontare il dislivello “oscuro” della strettoia in cui lo costringono il monte Ausinito e il monte Cavallo. Le due montagne, a mo’ di due “briganti”, chiudono i varchi d’accesso all’alta valle come sentinelle sempre allerta per contenere eventuali assalti provenienti dalla bassa valle. Prima, però, ha concesso, anche qui, ai giovani Vallodellangiolesi la gioia prodotta dalle carezze dell’acqua sulla pelle grazie allo sfarzoso sbarramento denominato “Tenodde”. Lì generazioni di ragazzi hanno assaporato il piacere dell’immersione e dei tuffi dalle levigate piattaforme naturali che si specchiano nell’acqua cristallina. Eppure un tempo il mulino D’Orsi-Mazzei ha macinato tonnellate di grano strappato con il sudore della fronte dalla laboriosa anche se spigolosa gente di Valle Dell’Angelo. Salire fino al “vuccolo di Pescorubino” fa il paio conle sensazioni che si provano quando s’imbocca il fantastico e più frequentato sentiero del “Silenzio” che parte dall’ampio pianoro dove il ponte medioevale in pietra a “sella d’asino” scavalca il Calore e porta dritto in bocca alla cappella rupestre dedicata a S. Elena. E non poteva essere diversamente visto che l’acciottolato tratturo era frequentato da uominie donne che, al seguito dei loro armenti, scalavano il monte Cavallo per raggiunge re Pruno di Laurino passando per la radura di Vesalo dove, tutt’ora, s’immergono le voglie insaziate di natura di molti turisti di ritorno. E proprio lì, a due passi dal maestoso convento di S. Antonio è situato lo strapiombo d’acqua detto “vurvo Scuro” dove si tuffavanole ardite voglie di esibizionismo dei giovani di Laurino. L’acqua gelida, a pochi metri dalla sorgente che disseta i Laurinesi e l’arsura del letto del Calore defraudato dalle captazioni “chiainare”, diventa scura per la profondità difficilmente scandagliata dai raggi del sole.
Un tempo si pensava che quell’acqua provenisse dall’inghiottitoio di Vesalo, ma la supposizione fu sfatata da un esperimento messo in atto oltre un ventennio fa: il colorante immesso a Vesalo, uscì nella grotta di S. Giovanni posta a cento metri più a valle.
La boccata di sole assaporata nel pianoro di S. Elena è solo una breve pausa che riposa le gambe e la mente. Distrae e rende leggero il passo dell’escursionista che si posa sul prato raso e morbido prima di salire, per continuare a discendere, lungo la rupe che sorregge il castello tradotto in palazzo ducale dai signori di Laurino. Il sentiero assume i connotati di un aspro e irto percorso da affrontare con impegno serioso per evitare disastrose conseguenze agli amatori del trekking. Pietre e rovi non lasciano scampo a chi vi si addentra senza adeguate protezioni ed esperienze. Uno dei motivi, che è comune ai tanti sentieri che accompagnano gli argini del Calore, è la scarsa manutenzione che da un lato rende difficoltoso il percorso, dall’altro, invece, lo preserva da una fruizione disordinata e poco rispettosa. In cima al rialzo, che consente di evitare la macchia, accessibile solo a volpi e cinghiali, si può assaporare la dualità del luogo: col naso all’insù si può intravedere la muraglia del giardino del palazzo ducale, in basso si può udire il fiume che ruggisce per divincolarsi dall’intreccio di macigni e composizioni scolpite da tempo immemore.
In alto la storia fa valere i secoli di padronanza di un paese che ha dominato la Valle, in basso i millenni reclama no diritti naturali che vanno oltre gli uomini e, si spera, un giorno potranno ancora essere ripresi grazie all’oculatezza dell’uomo moderno ben disposto a concedere al fiume l’indulto per peccati che non ha mai commesso. Laurino ha difeso l’ampia ansa che gli guarda le spalle, con ponti a monte e valle nella parte meno ripida ed esposta al sole del tramonto. Dall’alto ha gestito con sensatezza le terre e i monti senza mai farsi trascinare dalla voglia di profanare il corso d’acqua fatto salvo l’aspetto ittico. La trota di Laurino (Fario) ha fatto storia fino a divenire un vero e proprio evento che recentemente è stato ripreso e messo in scena nella piazza del seggio e in processione per i saliscendi della città medioevale.
Riprendere il viaggio seguendo il dolce saliscendi del sentiero che controlla il fiume dall’alto con “inchini” profondi fino a toccare le fresche acque dove spadroneggiano le trote finalmente tranquille a “combattere” con la forza di gravità che le vorrebbe trascinare a valle.
La “Palata”, un altro luogo di ritrovo per ragazzi meno arditi degli spericolati tuffatori della spianata di S. Elena, anticipa l ‘apertura del letto del fiume alle dolci colline de poste ai piedi dalla sfarzosa signora e regina della valle, Laurino. Un altro ponte medioevale raccorda le sponde del fiume che prende fiato prima di gettarsi nel fogliame che precede l ‘ampia curva dopo la quale appare “Ponte rotto” il bivio dove la strada si divarica ed offre al viandante l’alternativa del Cilento interno verso i castagneti di Stio fino a Pellare e Vallo della Lucania e il bosco dello Scaravello che costeggia l’ampia petraia dove il Calore si dilata fino a perdersi in mille venature per ricomporsi sotto Magliano dove lo splendido ponte in pietra fa da contraltare a quello dell’acquedotto che ne sfregia l’incanto.
Le Gole del Calore
Il crocevia che smista i camminatori della natura tra la risalita di Magliano e le Gole del Calore (propriamente dette) che hanno fatto la fortuna di Felitto, ha al centro e nella sua testimonianza arcaica la struttura del ponte medioevale che ha fatto il giro del mondo. Chi ha avuto di passarlo a piedi e a cavallo ha riportato sensazioni che, anche a distanza di anni, fanno risalire vampate di emozioni al volto e al cervello. Lanciarsi nella gelida acqua del l ‘ampia conca che la raccoglie proprio sotto il suo arco di pietre disposte a sella d’asino, è un refrigerio che spezza il fiato ma ti fa sognare ben altri corsi d’acqua posti a latitudini più lontane dall’Equatore. È lì che le fredde acque prendono la rincorsa per catapultarsi verso il ripido letto che lo porterà al Remolino, l’oasi del WWF dove il Calore si raccoglie fermato dalla forza dell’uomo che volle imprigionare le sue acque per produrre scintille di luce.
Quasi a caricarsi di energie positive l’acqua, qui, s’intrufola fino al ventre della terra. Ne scandaglia l’anima nobile e i segreti impenetrabili dall’uomo. Solo millenni di infinita pazienza ha prodotto aperture e solchi sublimi dentro ciclopiche rocce che, oggi, sculture prodigiose, incantano le carovane di turisti che hanno la perseveranza di inoltrarsi per i due sentieri che costeggiano gli argini.
Sentieri agili e aperti anche ai “pagani” della natura che vi si aggirano estasiati come quando un turista entra nelle cattedrali e, alzando gli occhi, scoprono l ‘infinito costruito dall’uomo alla ricerca dell’entità suprema. Sarà stato per questo che Bennardo l’eremita traslocò in una grotta “arrangiata” a rifugio e lì trascorse la sua esistenza ad ascoltare il canto della natura che si deliziava dell’accompagnamento del fiume che scorreva, e scorre, sotto i suoi piedi. Oggi, quel luogo è ridotto a solitario interstizio nel verde. Non sono molti quelli che vi si avventurano, a causa del sentiero che si contorce su se stesso, per arrivare ad ascoltare il sogno verde di Bennardo: chiunque capisce che la risalita è il prezzo, in sudore, da pagare per goderne i “sapori”.
Ma anche per giungere al ponte di pietra che giganti pietrosi hanno voluto donare agli avi del fiume e ai novelli pellegrini di sensazioni forti. Chi ha l’ardire di calarsi aggrappandosi giù, per la rudimentale scala a pioli retta da un palo asimmetrico incastrato lì dai primi “speleologi”. Arriva a toccare il fresco ardore dell’acqua che si cheta, ma che pochi istanti prima si era esaltata in un vorticoso ansimare cascante di spruzzi dispersi in bruma che rende giustizia ai pochi, ma unici, raggi del sole che, allo zenit, perforano il verde fogliame.
E non è facile nemmeno per gli uomini risalire la boscaglia della riva destra a scendere verso il Remolino. In alcuni passaggi bisogna aggrapparsi a rocce sporgenti e usare rami come liane. Ma essere lì, nel groviglio di forti scenari che mutano con lo scendere e l ‘ascendere i contrafforti sugli argini, è indimenticabile goduria dei sensi: vedere, udire, annusare, toccare e, in molti casi, assaporare. Gli organi dei sensi, qui, si ritrovano in uno stato di ebbrezza che non fa perdere conoscenza, anzi, fa ritrovare coscienza di sé. Resta, però, l’amaro in bocca per quello che si ha a pochi passi dal quotidiano e poche volete, oltre che poche persone, riescono a vivere.
Il dolce declinato sentiero che porta alla diga che, un tempo, frenava e incanalava l’energia dell’acqua, si fa agile grazie all’antropico andare dei molti turisti (molti Olandesi) iniziati alla Valle del Calore da “esploratori” indefessi importati dall’urbe. Canoe, pattini, voci giocanti annunciano il vivere festoso l’aria che si rinfresca nell’acqua. Fornelli di pietra, fumanti fornaci, aitanti forchette sono in festa tra ciottoli ed erba.
Il vecchio canale, incrostato di edere e foglie. Ferito da frane e balordi. Ora uso a passi decisi e tremoli incedere. È stretto. All’incrocio di flussi ci si stringe all’abbraccio. Un saluto un consiglio e su e giù per andare, vedere e anche cadere. Fino a toccare l’umido suolo che ormai non fa più paura. Si passa, attraversa, si bagnano i piedi. Si sogna di un tempo che il mulino batteva. Lassù c’è Felitto. Arroccato a sentire ma con l ‘occhio rivolto giù a valle, come Laurino.
Il sentiero si contorce fino al paese. La piazza lo accoglie e, pellegrino il foreste, si accomoda al sole a incontrare e toccare l ‘indigeno cuore che ancora ribatte i vecchi cantori. Giù a valle, il ponte ricorda che molti transumanti pensieri hanno posto, all’addiaccio, il loro “iazzo” e il gregge.
Alla fine delle gole, anche il canale di getta furtivo nell’antica centrale che soccombe alla strada ma anche all’incedere del vortice della modernità che fece rinunciare alla forza della natura per ingannare il futuro. Il Calore, a Felitto, come puledro solitario, si avvia all’incrocio fecondo con i prossimi compagni di viaggio che in esso si uniranno. Si lustra, si acconcia, ma non guarda al remoto, va avanti incessante fino al nuovo che avanza.
Il presente dà ragione all’eterno cadere di un elemento che irrompe, mai lo stesso, per ricordare che dall’infinito cielo arriva e verso l’infinito mare troverà la pace.