di Giuseppe Liuccio
Nella mia biblioteca fanno bella mostra di sé due bei libri di Domenico Chieffallo: “Venimos de la noche y hacia la noche vamos” e ” Sotto cieli lontani“. Ogni tanto li sfoglio e ne rileggo qualche pagina. Lo storico cilentano ha concentrato la sua ricerca sull’emigrazione. Oltre l’Atlantico vive una numerosa comunità di nostri conterranei, forse addirittura superiore ai residenti in patria. Sono l’esercito delle migrazioni bibliche, che, a più riprese, nell’ultimo secolo ha abbandonato, con gli occhi tremuli di pianto, la piazza, la chiesa, il campanile, il camposanto ed ha corso l’avventura verso l’ignoto. Hanno lavorato sodo nelle periferie malsane delle metropoli o nelle campagne delle “fazende”, ingoiando mortificazioni e soprusi, che ne ferivano nel profondo la dignità. Molti ce l’hanno fatta e si sono imposti nei paesi d’accoglienza con forza di volontà, intraprendenza e professionalità. Tanti hanno fallito e sono tornati stanchi, demotivati e sconfitti ai paesi d’origine. Alcuni ci hanno rimesso la vita e sono morti tra gli stenti e l’anonimato con occhio acceso a povere croci arrugginite di lontani cimiteri assolati. Il tema è noto e ben radicato nella coscienza dei sindaci eletti nel Consiglio Direttivo del Parco.
L’emigrazione, si sa, offrì uno sbocco ed una valvola di sfogo alla fuga dei “senza terra”, senza lavoro, senza mezzi di sussistenza e che presto popolarono il limbo dei “senza patria”. L’effetto fu lo spopolamento dei paesi, l’abbandono delle campagne, l’immiserimento degli antichi mestieri, la quasi scomparsa di una economia fatta di povera e stenta sussistenza, ma anche di calda solidarietà umana. Il territorio ne risentì e si impoverì ancora di più. Chi partì, con la notte nel cuore, dovette tribolare a lungo prima di illuminarsi ai sfocati chiarori di un’alba di speranza. E si incattivì nelle baracche degli alloggi di periferia, nell’incomprensione di una lingua sconosciuta, nella scarse relazioni umane con gente spesso ostile; e qualcuno ci rimise la salute ed il senno. Nel lento e difficile processo di integrazione si rifugiò nella malinconia della nostalgia e sacralizzò culti e tradizioni della terra lontana. Dopo, ma molto dopo, e solo a costo di duri sacrifici, riconquistò dignità ed ebbe riconoscimenti per il suo lavoro. Oggi gli emigranti di seconda e terza generazione recitano, spesso, un ruolo di primo piano nei paesi di accoglienza ed occupano posti di rilievo nelle professioni, nell’imprenditoria, nella politica, nella letteratura, nell’arte. E gonfiano il cuore di orgoglio per le conquiste a lungo sospirate. Quest’ultimo aspetto è frutto della ricerca del secondo libro “Sotto cieli lontani” ed esalta le figure dei Cilentani di successo, che non hanno mai dimenticato i paesi di origine o ci sono ritornati acclamati, riveriti e, soprattutto, ammirati dai conterranei.
Le ricerche di Chieffallo mi consentono almeno due riflessioni di scottante attualità. La prima: L’emigrazione di ritorno è una ricchezza da valorizzare per la promozione del territorio, nella consapevolezza che i nostri connazionali all’estero sono possibili promoter della nostra storia, della nostra cultura, delle nostre calde tradizioni, dello scrigno inesauribile dei tesori dei nostri Beni Monumentali ed Ambientali. E come tali andrebbero motivati ed utilizzati con opportune iniziative. Se ne dovrebbero occupare nell’ordine: il Parco Nazionale, le fondazioni, i consorzi, i singoli comuni… Il buon senso consiglierebbe di non sciupare questa opportunità. Per la verità non è l’unica che sciupiamo. Cominciamo dal Parco: potrebbe ripescare dai polverosi archivi una ricerca del Prof. Caporale, che censì 1) LA MAPPA RAGIONATA dei nostri conterranei residenti all’estero per promuovere l’immagine del territorio del Parco nel mondo, innanzitutto con una emigrazione di ritorno per una riscoperta dei paesi di origine dei cilentani di seconda e terza generazione. E sarebbe un modo per riannodare i fili con una parte della nostra storia in terra straniera. Sul come esistono, anche in questo caso, varie progettualità anche mie, anche perché facevo parte della squadra di lavoro coordinata da Caporale. Basta recuperarle sempre dagli archivi. Così si potrebbe cominciare a riempire quel “guscio vuoto”, come sono solito definire l’Istituzione Parco, da un po’ di tempo a questa parte, non per posizione preconcetta, lontana dalla mia formazione culturale, ma per provocazione feconda, spero, di sviluppo, come atto d’amore. Spero che la nuova “governance”, nel suo insieme, si renda conto che macina a vuoto e pesta acqua nel mortaio, perché nell’opinione pubblica il Parco è assente, quando addirittura non è percepito come una istituzione dannosa. Bisogna recuperare il tempo perduto con iniziative di ampio respiro: RISCOPRIRE STORIA ARTE E NATURA del territorio per esaltare l’orgoglio di identità e di appartenenza, con LA CULTURA: a) Corsi per amministratori comunali, operatori economici, studenti sul tema: IL FUTURO DELLA MRMORIA. b) Campagna promozionale di informazione che miri a far conoscere il Cilento ai cilentani e, nello stesso tempo, il Cilento nella nostra regione (treno verde) e, poi, in Italia e nel mondo. E che dire poi di una serie inesauribile dal titolo: LA NATURA HA UN’ANIMA? Ma facciamo presto prima che il Parco venga cancellato, con fastidio, dalla mente e dal cuore dei cilentani, prima, e dalla comunità nazionale dopo.
La seconda ragione è l’Immigrazione. La collettività del Parco, nel suo insieme: amministratori, operatori economici e tutta la più vasta società civile deve affrontare il problema, dibatterlo con responsabilità e ipotizzare una soluzione all’integrazione di questo meticciato di e tra poveri. Ma il tema merita una riflessione a parte che mi riprometto di fare a breve.