Gianni Rodari e i bambini vittime della Shoah: “Hanno sognato la vita”!
Nel maggio del 1961 Gianni Rodari scriveva sulle pagine di NOIDONNE un articolo per ricordare le migliaia di bambini uccisi nei campi di concentramento nazisti
A sessanta chilometri da Praga, tra colli azzurri e pascoli verdi, giace la città di Terezin, già fortezza della monarchia austro-ungarica. Durante la seconda guerra mondiale i nazisti tedeschi ne fecero un gigantesco e pauroso ghetto, dove a migliaia deportarono gli ebrei cecoslovacchi. Via via che la loro folle macchina di distruzione si perfezionava, Terezin si trasformò in un campo di raccolta di ebrei d’ogni parte d’Europa, come da un’orrenda stazione di smistamento, venivano diretti verso l’Est, verso i campi di annientamento dove forni crematori ardevano giorno e notte e arsero per mesi e anni, incenerendo milioni di vite, per spegnersi soltanto al crollo del nazismo.
Per Terezin sono passati, in quegli anni, quindicimila bambini e di essi soltanto cento sono sopravvissuti alla strage. È doloroso pensare ai bambini che la morte ha colto nelle loro case o, come a Gorla, nei banchi di scuola, sotto i bombardamenti.
È atroce pensare a quelli che una rappresaglia crudele ed insensata ha falciato insieme ai vecchi, alle donne, come a Marzabotto. Ma quasi non si riesce a pensare alla gelida bestialità degli uomini che a Terezin hanno fatto l’appello dei bambini, cento alla volta, mille alla volta, per caricarli sui treni che li avrebbero portati ad Auschwitz; degli uomini che li hanno rinchiusi nei vagoni piombati; di quelli che, all’arrivo, li hanno fatti scendere, incolonnati, introdotti nelle camere a gas.
Eppure sono cose accadute sotto i nostri occhi. Sono disumane e incredibili al punto che un nazista, in Germania, può osare di pubblicare un libro per dimostrare che la strage di Marzabotto “non è mai accaduta” e un altro nazista, Adolf Eichmann, davanti al tribunale di Israele, può dichiararsi “non colpevole”.
Sembrano le gesta di un’altra razza, calata da qualche barbaro pianeta sulla Terra. E invece sono le gesta compiute da uomini che in gran numero sono ancora vivi e attivi nel loro paese: abitano in case confortevoli, hanno mogli affettuose, bambini innocenti, di cui possono carezzare teneramente i capelli. Alcuni di loro vestono ancora la divisa del soldato tedesco, occupano alte cariche dello Stato, a Bonn. Sono gli uomini che abbiamo cacciato con le nostre mani. Come sembra lontano quel meraviglioso 25 aprile del 1945. Quanta gente, anche in Italia, ha lavorato ad accumulare polvere sul calendario. Quanti dolci, suadenti, autorevoli inviti a dimenticare. Ma noi non vogliamo dimenticare, di quelle giornate, di quella guerra, nulla: non un minuto, non un nome.
Riprendiamo in mano il volume in cui sono raccolti i disegni e le poesie dei bimbi ebrei che hanno vissuto a Terezin il loro penultimo giorno di vita, prima di essere avviati all’annientamento.
Sfogliamo quelle pagine in cui colori freschi e violenti, linee ingenue ed estrose disegnano una storia incredibile: la storia di bambini che crebbero in una prigione e che ci videro anche cose che gli adulti ormai non vedevano più, i fiori, le farfalle, i prati o vi sognarono impossibili viaggi, straordinarie avventure con i principi e le principesse delle favole. In quei disegni non trovate mai l’orco, la strega, gli esseri in cui il bambino concentra ogni idea di malvagità, di paura, di crudeltà. Il male, essi, lo avevano sotto gli occhi: il sudiciume spaventoso dei dormitori e delle infermerie, lo squallore delle fosse comuni, i treni che arrivavano e ripartivano con il loro terribile carico. Pare che le loro matite abbiano lavorato febbrilmente, ostinatamente, soltanto per salvare da quell’inferno, qualche segno della bellezza della vita. Eva Bulovà (morta ad Auschwitz) ha disegnato farfalle enormi, con ali variopinte così larghe da nascondere ogni bruttura. Gabriella Fulovà (di undici anni, morta ad Auschwitz) ha dipinto girotondi festosi, bambini che saltano la corda all’ombra sicura di alberi altissimi, sui tappeti consolanti di minutissimi fiori. La piccola Erika Taussigovà, ha visto e dipinto con amore una finestra ornata di poetiche tendine a vivaci colori. Ruth Schauzerova una danza sul prato, Nina Lederova una fanciulla che sogna alla finestra; ma può la dolcezza di quelle immagini averle assistite nel momento supremo? I bambini di Terezin non avevano altro mondo che quello per amare la vita: i ciechi che debbono amare il loro buio non sono più poveri di loro. Ma i loro sogni li portavano lontano. “Vieni facciamo vela” – ha scritto una bimba in una sua breve poesia, dove tutto è sacro, anche gli errori – per il paese dove il sogno diventa realtà: o “Marocco, com’è dolce il tuo nome”. Ed Eva Heska disegna e colora amorosamente una palma, una palma sola che più che l’Africa, rappresenta la libertà, il mondo in cui si vive senza paura, mentre Elena Hellerova su un mare che ha più pesci che onde vara una barchetta tutta rossa e la spinge lontano lontano, perché giunga dove lei non giungerà mai. Eppure di quando in quando un’ombra improvvisa di angoscia vela i segni incerti della matita, gli occhi si destano dai loro sogni e registrano crudamente la realtà. Ecco un panorama di Terenzin: ma vi si vedono più croci che case. Il cimitero, agli occhi del bimbo è diventato improvvisamente più grande della città. Oppure è Bedric Hoffmann (dodici anni) che ha visto uno di quegli spaventosi treni e ora li rifà sulla carta, accatastando sui vagoni uomini come marionette, stretti a decine, ormai anonimi come fantasmi. Hana Grundfeldova disegna il suo squallido dormitorio: su ogni letto mette un’allegra coperta rossa. E anche Josef Novak disegna la sua camerata: ma ogni letto pare, nei rigidi ghirigori neri, uno scheletro. Liana Frakova racconta la distribuzione del rancio: l’uomo che col mestolo riempie di avara broda le scodelle dei prigionieri è alto e possente come un re. E’ l’uomo più importante del campo, il più terribile. Un suo capriccio e la fame sarà più dura. Forse se gli sorridi ti darà qualche cucchiaio d’acqua sporca in più. Liana ha letto tutto questo negli occhi e negli atteggiamenti degli adulti schierati davanti al potente: ha dovuto impararlo a sue spese. Quando lo ha imparato anche lei è partita per Auschwitz. La morte fa tutti adulti. “Ora non sono più un bimbo, sono cresciuto perché ho conosciuto la paura” ha scritto un altro piccolo poeta di cui nessuno saprà mai il nome. E anche Eva Pockova, di dodici anni, intitola la sua poesia “La paura”.
“Io sono ancora qui, sono ancora una creatura viva mentre la mia amica è già andata Di Là: io non so, forse sarebbe stato meglio che anche me mi avesse preso la Morte”. Ma cos’è la Morte per un bambino? Da Buchewald – altro nome di morte – è giunto fino a noi il disegno di un bambino di dieci anni, Robert Sattler, che rappresenta un funerale nel campo di concentramento. Un teschio e due ossa incrociate campeggiano nel firmamento, come una lugubre insegna. Dietro la bara camminano due persone e una terza, che spinge una carrozzina: da tutte le bocche e anche dalla carrozzina, esce – come in un fumetto – lo stesso tragico e grottesco “Bè,Bé”.
I grandi pregano, il piccolo piange: i suoni vanno per l’aria ferrigna inutili, insensati. Il bambino che ha fatto il disegno ancora non lo sapeva, ma i suoi occhi e la sua mano sapevano già della fine crudele cui sarebbero andati incontro: già non credevano più, non speravano più in nulla. Non possiamo dimenticare quei bambini, i bambini di Marzabotto, quelli di Gorla. Non possiamo dimenticare quella guerra, quel che ci è costata, la Resistenza da cui siamo rinati. Il mondo cammina, va vanti, è vero: l’uomo arriva nel cosmo, compie imprese miracolose. Ma il tempo non cammina in una sola direzione: Yuri Gagarin è salito molto in alto ma c’è anche chi lavora per trascinarci indietro e in basso. Non dimentichiamo.
di GIANNI RODARI