di Giuseppe Liuccio Il pane è da sempre re dell’alimentazione. Nei secoli è stato la benedizione delle case, simbolo di ricchezza e di abbondanza. La mancanza, sinonimo di privazione, stenti, miseria, e, forse per questo, la mitologia antica è popolata di dee e dei protettori dei campi e dei frumenti, i cui raccolti abbondanti assicuravano pane e sopravvivenza. Ritualità che si è, poi, trasferita nella liturgia cristiana, ricca, a sua volta, di madonne e santi a protezione di campagne. Quelli della mia generazione hanno fatto in tempo a vivere le atmosfere del forno a legna e la poesia del pane fatto in casa, come del successivo passaggio alla fase paraindustriale dei forni, diciamo così, pubblici. La panificazione in famiglia era una festa di mamme e nonne, dee sorridenti e prosperose, allo spolvero della farina, all’impasto a forza di muscoli robusti nella madia, che si gonfiava a crescita miracolosa di pasta, che, lacerata a pugni abbondanti, assumeva a colpi decisi di maestria di massaie, la forma di “panelle” e “panielli”, abilmente segnati, questi ultimi, per ricavarne, a prima croccante cottura, “vescuotti” biscotti da sgranocchiare e/o da conservare in cesti diligentemente coperti da bianchissime tovaglie “mesali” di lino e generalmente appesi alle travate per la ventilazione. Come le “panelle”, d’altronde, e che spettacolo l’infornatura rapida a scivolo di pala nel forno incandescente di brace aromatizzata da fascine di collina e di montagna! Che ebbrezza spiare quelle forme che crescevano a sorriso rosato di pasta a cottura uniforme! Che aroma a pungere narici e solleticare desideri di deschi appetitosi quel pane fragrante e fumante appena sfornato ad esposizione di “tompagno” (si chiamava e si chiama ancora così quel quadrato di tavola approntato a momentaneo deposito delle forme appena cotte)! Memorie di altre stagioni! Oggi il pane fatto in casa è una rarissima civetteria di donne e di famiglie che, periodicamente, riscoprono vecchie abitudini. Oggi ci sono panifici e panetterie e forni, e tutti i paesi, o quasi, ne dispongono di almeno uno. Ma per fortuna resistono ancora quelli a legna con la panificazione all’antica. Ed è frequente trovarli nel mio Cilento. Quando, camminando per strade, slarghi e vicoli, ti inonda una zaffata fragrante che ti punge le narici e solletica l’appetito, è la spia che il forno è quello giusto, soprattutto se dai comignoli dei tetti rossi, (che poesia i comignoli e gli embrici rossi che squillano al fioco sole dell’autunno inverno e mettono allegria!) fuoriesce ondeggiante a gomitoli la nuvola biancastra con il carico di aroma di erica e ginepro di montagna. Puoi, anzi devi, fermarti. Hai trovato il tuo “pane quotidiano”. Il richiamo al “Padre Nostro”, la preghiera che si recita sempre in forma corale e solenne durante la messa ci riporta alla sacralità del pane. E, d’altra parte, quelli della mia generazione hanno esperienze e ricordi nitidi di ritualità di grande fascino che si praticavano e si praticano ancora durante la Settimana Santa nei paesi del Cilento. Ne ho scritto altre volte, ma lo faccio ancora, convinto come sono della validità didattica e della tecnica di comunicazione del vecchio adagio “repetita iuvant”. E così mi rifaccio ancora ai ricordi di dolce malinconia che sanno di poesia dell’infanzia lontana: … “dall’oscurità di vecchie casse o dalla penombra di cantine sotterranee emerge il miracolo del grano pallido sbocciato e cresciuto per incanto nei reticoli di stoppa inumidita e riempie di vita tenera piatti di ruvida creta e con la civetteria di grappoli screziati di violacciocche adora il ‘Sepolcro’ di Cristo ed esalta il Sacramento dell’Eucarestia. Quel pane che, nel miracolo della transustanziazione, si fa corpo e quel vino, che pulsa sangue nelle vene del ‘Redentore’, riaccendono nostalgie per le tovaglie di candido lino e cesti stracolmi di pane croccante sul lungo tavolo al centro della chiesa madre”. E il sacerdote in camice bianco e stola violacea rinnova il mistero del “Giovedì Santo” E ancora una volta la mediterraneità trionfa nel fasto dei suoi alimenti. Che bontà quel pane bianco. “il pane benedetto” al quale nella nostra ingenuità infantile attribuivano efficacia miracolistica, sbocconcellandolo con grande avidità. E, così, le campagne biondeggiano dell’oro del frumento e s’ingravidano degli umori e dei profumi dei vigneti. E libri di scuola e reperti dei musei rovesciano nell’immaginario collettivo scene di conviti e quadri di vita agreste e dei e ninfe popolano templi e campagne, fiumi e boschi. E Demetra e Cibele, Hera ed Iside, Bacco e Pan, Priapo e Sileno occhieggiano dal pantheon del passato; e cristianesimo e paganesimo, fede e superstizione, storia e mito si mescolano e si fondono nel superiore concetto della cultura. Ed il grano assunse valore e simbolo beneaugurante di fecondità in tutti i continenti. In India, dopo la prima notte di matrimonio la madre dello sposo si avvicina alla sposa e le pone sul capo una misura di grano e subito dopo lo sposo le si avvicina prende qualche pugno di frumento e lo spande intorno a sé. Stessa tradizione o quasi nell’area Mediterranea, come in Sardegna, ove i genitori della sposa, prima di recarsi in chiesa benedicono la figlia con chicchi di frumento. Stesso valore simbolico ha l’usanza molto diffusa nel Cilento e non solo, dove gli sposi all’uscita della chiesa sono assaliti da una festosa mitragliata di chicchi di grano e di riso, ed anche confetti con l’allusione maliziosa al dolce dell’atto d’amore finalizzato alla procreazione. E, naturalmente, grano e pane sono stati fonte di ispirazione dei poeti di tutti i tempi e di tutte le letterature, a cominciare da quella classica latina e greca, Omero in primis, (straordinarie le scene dell’agricoltura dipinte sullo scudo di Achille), ma anche quelle cantate da Sofocle in “Edipo a Colono”, e ancora quelle descritte da Esiodo nelle “Opere e i giorni”. E che dire di Virgilio che dedica un intero poemetto alla prima forma di pane nel “Moretum” e di Catone nel suo trattato sull’agricoltura e della poesia immaginifica ricca di metafore coinvolgenti delle Metamorfosi di Ovidio. Nella letteratura italiana, poi, il tema è ampiamente presente. Mi vengono in mente alcuni versi dell’Alcione di d’Annunzio come alcune scene dell’assalto ai forni di Manzoni. Per non parlare della poesia e narrativa del secondo novecento che conobbe le battaglie sociali contro i latifondi cantate e narrate da Rocco Scotellaro, Ignazio Silone, Giuseppe Jovine ecc. ecc. Analoghi esempi troveremmo nella pittura, nella musica e nella cinematografia. Ma penso anche all’archeologia, soprattutto per noi che abbiamo campi di ricerca ricchi di sorprese come Poseidonia/Paestum e Velia, i cui territori hanno conosciuto anche l’epopea contadina dell’“assalto ai latifondi” narrate in belle pagine di letteratura contemporanea. Ecco un tema da teatralizzare, che mi permetto di suggerire sommessamente alle scuole del territorio, Vallo, Paestum ed Agropoli innanzitutto. Dispongono di docenti ed alunni motivati. Troverebbero comprensione ed apertura mentale, credo, nel giovane Direttore del Museo Archeologico di Paestum, Gabriel Zuchtriegel e, mi auguro fortemente, anche nel Presidente del Parco e in alcuni sindaci ed assessori lungimiranti. Il primo ha già sperimentato positivamente la teatralizzazione di testi di Alfonso Gatto, Ungaretti e miei nell’area Archeologica con la professoressa Carmen Lucia ed i suoi bravi alunni. Gli altri hanno promesso pubblicamente impegno e fondi per la cultura. Nel Cilento, poi, si moltiplicano le “feste del pane”, che acquistano, purtroppo, sempre più connotazioni di “sagre” chiassose e non di eventi culturali. E se fossero preceduti da un serio convegno sul pane nel mito, nelle religioni e nella letteratura, come suggerii, inascoltato, alcuni anni fa ai miei conterranei? E se mettessimo in piedi una mostra con testimonianze della semina, della mietitura, della trebbiatura e della panificazione, e rispettivi attrezzi di lavoro? Faremmo opera di cultura e di recupero della tradizione a proiezione di futuro. Io tornerò sul tema convegno e mostra: lo sento come un dovere per la mia terra e come testimonianza d’amore, qualunque ne sia l’esito. Concludo, intanto, con uno dei miei tanti testi sul tema che si prestano alla teatralizzazione. “LO PPANE: Facia lo ppane ogni settimana/mamma pe lo tenè ra frisco a frisco./Lo furno era inta la cucina:/paria n’altare mbacci no contone:/E me mannava addò zia Magarita/pe ghì a mprestà, com’era l’uso tanno,/lo lovato stipato inta lo ffrisco./Ammassava inta la matra la farina/chera ianca re grano carusedda/e chera gialla re lo granorinio./Com’era bella mamma, uocchi re sole,/nu maccaturo ncapo e mantusino/nettito come neve re iennaro!/M’arricordo lo furno c’avvampava/co frascedde re fringi e de mortedde/re scantamani ca scuppettianno/spanniano l’addore pe la casa./Ricordo lo munnolo, lo vuccolo/pe spiane lo ppane ca cucia:/panelle, li panielli e li vescuotti/ca rusecava co cerasa e pruma,/presseca, pera cosce, uva e fico./E che sapore ca tenia lo vicci/mbuttunato co vruoccoli re rapa/scoppettiati co no filo r’uoglio./Che festa era la pizza re peddecchie/re pemmarore co caso grattato!/Io ne mangiava fedde belle grosse/e me untava musso, facci e mano./E mamma me uardava e se priava./Io me sentia patrone re lo munno/si me stringia e me vasava nfronte!!!” Ho scelto un testo dialettale perché, forse, si presta meglio alla divulgazione ed alla democratizzazione della Cultura. Sarebbe un’opera meritoria e lodevole provarci.
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