Nella zona Parioli di Roma, dove abito, trionfa il fasto della primavera nello scialo della fioritura. I recinti dei giardini delle ville di pregio, ostentano siepi di bosso con foglie verdi di verginità intonsa e lustre di sole tiepido di primavera,ma anche un arabesco profumato di glicini con ciondoli di gioielli di pigne. Se spii dalle cancellate, nei prati ben curati, c’è festa di margherite spontanee multicolori e aiuole di peonie apparentemente fragili ma passionali e voluttuose. Nei viali delle strade pubbliche c’è gara di ibiscus ad esposizione di corolle colorate e di oleandri a ciuffi ad ombreggiare, colorare e profumare marciapiedi di giovani, a schiocchi di baci audaci nella penombra della prima sera, a scatenare ricordi di coppie attempate a memoria di emozioni irreparabilmente perdute di gioventù lontana. Ed io naufrago nel mare delle letture di leggende e miti… Una pastorella della Valle del Po di nome Glicine, era disperata perché nessun ragazzo la degnava di un’occhiata galante o di un sorriso di seduzione. Pascolava le sue mandrie di giorno e di notte dormiva in un maso a quasi 2000 metri di altezza. D’estate si impegnava e si distraeva nelle cure per la mandria, felice e paga per il tepore del sole che le riscaldava il cuore. Ma ai primi freddi autunnali ritornava a valle e cadeva preda della malinconia. Un giorno passeggiava nel prato triste e sola, più malinconica che mai, si appoggiò ad un tronco di albero secco e pianse a dirotto. Le sue lacrime però non caddero a terra, ma bagnarono il tronco dell’albero e lentamente assunsero forma di grappoli di fiori viola, il corpo della ragazza si tramutava, a poco a poco, in una pianta flessibile e le braccia in tanti tralci da cui ciondolavano pigne profumate di straordinaria fioritura di un delicato tenero viola sfumato. Era l’immagine festosa e sfarzosa della primavera trionfante, della sensualità profumata della prima giovinezza e della femminilità nella sua aurorale epifania di grazia, di bellezza e seduzione. Anche l’ibisco ha un fiore molto sensuale con i lunghissimi stami visitati dagli uccelli ubriachi di profumi, sole, voli e amore, che corteggiano la pianta ma difficilmente vi si posano o vi fanno il nido per l’esilità dei rami, che non garantiscono stabilità e sicurezza. La bellezza delicata del fiore e la leggerezza delle foglie e la loro breve durata ne hanno fatto il simbolo della fugacità della bellezza. E per questo, nel linguaggio amoroso dell’ottocento, donare un ibisco significava dire all’ amata “Tu sei bella”, ma anche a ricordarle che la bellezza è passeggera e fugace, con il conseguente invito a viverla intensamente fin che dura. Ma il fiore che annunzia per prima la primavera è, e resta, la margherita chiamata anche pratolina che già a marzo, con la sua fioritura spontanea, trasforma fossati e campagne incolte in tappeti colorati prevalentemente di bianco, ma non solo. E non a caso molti pittori, dal Botticelli, al Ghirlandaio, a Gentile da Fabriano, le raffiguravano nelle tele e negli affreschi, quasi per alludere spesso alla Pasqua di Resurrezione che cadeva e cade quasi sempre in una domenica di primavera… E d’altra parte anche il suo pistillo solare, giallo oro, ed i petali che trascolorano con gradazioni che vanno dal bianco al rosa delle punte, alludono al nuovo tiepido sole primaverile: il bianco è infatti l’alba che trascolora nel rosato della primissima aurora o della primavera che annunzia la salita del sole al di sopra dell’equatore. E con la tenera bellezza di questi simboli, la cantò Giovanni Pascoli, il poeta dei sentimenti delicati, quelli che sbocciano nei cuori di tutti gli uomini, anche i più umili e semplici che, proprio per questo, ne sanno apprezzare profumi e bellezza: “Chi vede mai le pratelline in boccia?/Ed un bel dì le pratelline in fiore/riempiono il prato e stellano la roccia./Chi ti sapeva,o bianco fior d’amore/chiuso nel cuore? E tutto, all’ improvviso/la nera terra ecco mutò colore:/ O mezzo aperta come chi non osa/o pratellina pallida e confusa/che sei dovunque l’occhio mio si posa,/ o chini il capo, all’occhio altrui non usa;/ti chiudi a sera, chi sa mai per cosa,/ ti chiudi all’alba, ed il perché sai tu;/ o primo amore, o giovinetta sposa,/o prima e cara sola gioventù/.” E per finire vorrei parlare di un altro fiore tipicamente primaverile, la peonia, che da sempre dà quasi l’idea di un’ odalisca nuda di bellezza e voluttà. Ed anche in questo caso ci viene in aiuto un mito. Quando Ade, dio degli inferi, fu ferito da Eracle, chiamò al suo capezzale Peone, figlio di Asclepio, dio della medicina, perché lo curasse e guarisse. Peone lo curò così bene che il padre Asclepio fu assalito da una terribile crisi di invidia per il figlio. Allora Ade lo trasformò in una bellissima pianta, la peonia, “la rosa senza spine”celebrata in tutta la letteratura europea, dai grandi fiori solitari rosa, rossi ed anche bianchi, ma carnosi e salvò Peone da una possibile e prevedibile rappresaglia del padre. Un altro mito parla di Latona che, presa dalle doglie violentissime, non riusciva a partorire Apollo. Peone fornì alla dea il succo di un fiore senza nome, la dea lo bevve e con facilità diede alla luce il bimbo/dio. Latona trasformò Peone in un fiore che prese il suo nome. Nel linguaggio d’amore dei fiori la peonia indica Pudore e Timidezza. Un simbolismo che è in contrasto con la sua opulenza e forza dionisiaca, come canta Corrado Govoni nella raccolta “I fiori che amo”: “Peonie, rose esagerate rose/ dionisiache, rose in guardi infanti./Rose superbe simili ad infanti/ che si specchiano in differenti pose”.
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