Successore di mons. Barone fu mons. Giuseppe d’Alessandro, preconizzato vescovo di Capaccio il 19 giugno 1843. Nato ad Ascoli di Puglia, egli era stato professore di diritto canonico, teologia morale e dogmatica presso il seminario e canonico teologo della cattedrale, arciprete con cura della anime e arcidiacono e pro-vicario generale di Ascoli e Cerignola. Scelse di risiedere a Capaccio, ma sovente si recò a Novi. Di soda formazione teologica, chiese al capitolo cattedrale collaborazione, invitò i sacerdoti a studiare e chi si preparava al sacerdozio di formarsi in seminario. Nel concistoro del 24 novembre 1845, dopo appena due anni, Gregorio XVI lo trasferì a Sessa Aurunca, dove morì nel 1848. Intanto, il sottintendente di Vallo denunciava allarmato la situazione di disfacimento morale da attribuire innanzitutto alla deficiente istruzione religiosa e impartiva ai parroci direttive per migliorare l’azione pastorale e che ” si facessero preghiere (…) per la conservazione de’ giorni del Nostro Adorato Sovrano, per la quale ispirassero cieca ubbidienza ed attaccamento”. Ma la parrocchia era incapace di funzionare secondo tale modello; nella zona aveva perduto il sostegno d’istituzioni importante riferimento della socialità religiosa.
Il 24 novembre 1845 fu nominato vescovo Gregorio Fistilli. Nato a Rossano Calabro, era stato canonico curato della chiesa metropolitana, professore di teologia morale e dogmatica, rettore del seminario ed esaminatore pro-sinodale. Per motivi di salute egli risedette poco in diocesi, rassegnando nel 1848 le dimissioni. Nella lettera pastorale inviata da Sala il 22 gennaio 1847 egli enfatizzò l’obbligo di vigilare sulla condotta dei seminaristi e il dovere di attestare con cura la preparazione degli ordinandi, precisando altresì quali dovessero essere gli esami per l’ammissione all’ordinazione. Le vicende del 1848 segnarono il suo episcopato. Le informazioni della curia al sottintendente divennero più minuziose nel tentativo di preservare i pilastri di una società sacralizzata, ma sempre meno disciplinata malgrado le ripetute denunce.
Scoppiata la rivolta nel Cilento, mons. Fistilli si rifugiò a Sala, invocando la protezione delle autorità. La documentazione conferma non solo l’inconciliabilità tra funzione pastorale del clero e compiti assegnati dal governo, ma anche la grave inefficienza dell’organizzazione diocesana. Le autorità civili ne erano consapevoli e con accresciuta insistenza invitavano i parroci a collaboare; tuttavia, il numero ridotto di ecclesiastici e le scarse vocazioni indussero il sottintendente di Vallo a ipotizzare di affidare a sacerdoti extradiocesani o a ordini religiosi mendicanti interi vicariati. A febbraio del 1848 il vescovo annunciò al clero la concessione della costituzione, ponendo l’accento sul fatto che la religione cattolica rimaneva l’unica consentita. Il 10 marzo da Capaccio inviava una circolare per esortare i sacerdoti a cantare il Te Deum per il felice parto della regina, avvenuto il 4 dello stesso mese, confermandosi un attento esecutore delle volontà della dinastia. Il 19 aprile da Sala egli comunicava le disposizioni pervenute dal ministero il 5 aprile, invitando i sacerdoti a non “rimanere indifferenti” rispetto alla voce del pontefice fattosi “rigeneratore” della libertà dei popoli; perciò, i suoi seguaci dovevano convenire sul fatto “che oggi più che mai la loro missione è non solo religiosa, ma politica”. Mons. Fistilli riferiva circa le vicende “nei piani della Lombardia”, dove “da ogni banda accorrono i generosi figliuoli d’Italia per cancellarvi col sangue le invecchiate orme dello straniero”. Con queste affermazioni egli faceva proprie le parole del governo, che sollecitava concreti aiuti in danaro. Il presule impartì disposizioni perché fossero organizzate celebrazioni religiose per implorare la “comune indipendenza”, invitando il clero a sottoscrivere offerte “per una causa tanto interessante”.
Questi mesi di confusione e di sommosse determinarono forti sospetti sul presule, che per motivi di salute, temendo l’aria putrida della palude pestana, da Capaccio s’era trasferito a Sala, decisione che il sottintendente di Campagna criticò presso il superiore di Salerno, giudicandola molto discutibile giacché s’era allontanato dal centro della diocesi in un momento particolarmente delicato. Anzi il 24 aprile mons. Fistilli si recò a Rossano per respirare l’aria natia, proprio mentre l’elenco dei sacerdoti coinvolti nelle insurrezioni si allungava. La repressione ebbe ragione degli insorti e nelle carceri di Salerno furono rinchiusi circa 400 ecclesiastici del Principato Citra.
Un rinnovato clima di collaborazione tra Chiesa e Stato animò le discussioni sull’opportunità di smembrare l’antica diocesi di Capaccio. Lo spirito del concordato del 1818 e delle successive integrazioni dominava i nuovi, stretti rapporti, anche se si aggravava la strumentalizzazione della religione. In genere, nei paesi della diocesi gli uomini, che nel Settecento avevano avuto una pratica dei sacramenti annuale per il severo controllo esercitato dalla parrocchia sulla vita del paese mediante le relazioni del parroco nello status animarum, si sentivano meno costretti, né apparivano emotivamente coinvolti dalla congerie di liturgie e di devozioni, ancora efficaci tra le donne. Gli uomini progressivamente si allontanarono dalla pratica liturgica e dalla stessa religione, preoccupando la polizia e la dinastia, incapaci di controllare gli eccessi delle instabili masse contadine senza il sostegno della chiesa. Perciò, le autorità di pubblica sicurezza furono inflessibili contro i sacerdoti sospettati di propaganda liberale; a costoro s’addebitavano le disfunzioni nelle parrocchie, sollecitando l’intervento del vescovo per la loro rimozione. Ma il connubio tra ordinario e potere civile faceva perdere ulteriore credibilità al presule, generando contrasti e rivalità tra il clero. La crisi della Chiesa cilentana non andava ascritta soltanto alla presenza di sacerdoti ribelli, dai magistrati molto spesso classificati come “attendibili”, quindi indisponibili a svolgere l’attività di spionaggio sollecitata dalla polizia; ma ad un generale scollamento di tutto l’apparato ecclesiastico, ridotto alle difensive per contenere la crisi d’identità che angustiava la società, senza preoccuparsi di riconquistare consenso. Depositaria di tradizioni sempre meno sentite, la chiesa cilentana appariva compromessa col potere politico, ritenuto responsabile della grave congiuntura. Vescovi e sacerdoti non furono capaci di dar luogo a una radicale riflessione culturale per comprendere il perché dei mutamenti in atto e quali fossero le aspirazioni del ceto egemone e dei contadini. (cont.)