Di Giuseppe Galzerano

«Simo breanti e tutto lu Ciliento nui giramo», sono dei versi di un canto popolare cilentano. Tra di loro c’era anche Giuseppe Maria Tardio, un nome oggi sconosciuto e dimenticato, ma nei primi anni dell’Unità d’Italia intelligente e imprendibile «brigante», conosciuto e temuto in tutto il Cilento. La sua drammatica storia la racconta in maniera coinvolgente e senza enfasi Anna Maria Pipolo in L’avvocato brigante. Giuseppe Tardio dalla toga al fucile (Il Piroscafo, Bari), sua pronipote (un antenato aveva sposato la sorella Filomena), descrivendo e approfondendo con sensibilità sentimenti, emozioni, personaggi e luoghi. È una vicenda che le appartiene. Ha consultato documenti archivistici e giornalistici e la racconta con dolore e partecipazione, senza cadere nella trappola neoborbonica dell’esaltazione e dell’apologia del brigantaggio, anzi spesso manifesta dubbi e critiche, ricorrendo anche a efficaci e calzanti espressioni dialettali e dimostrando un’ottima conoscenza della geografia e della realtà cilentana.

Nato a Piaggine il 1 ottobre 1834 da poveri contadini, è attento e studioso. Il padre per riscattarlo e sottrarlo a un futuro certo di contadino o di pastore sfruttato e maltrattato – a costo di immensi sacrifici – lo fa studiare al Real Liceo di Salerno, dove incontra e conosce studenti provenienti anche dalla Basilicata.
All’Università di Napoli si laurea in Giurisprudenza e lavora dall’avvocato Marco Basilone di Salerno. Di sentimenti liberali, il 10 giugno 1859 partecipa ad una manifestazione semiclandestina che si svolge al teatro di Salerno a favore di Vittorio Emanuele II, entrato vittoriosamente a Milano.
È arrestato e sconta cinque giorni di carcere a Laurino. Ritornato a Salerno – riferiscono alla polizia – parla male del regime borbonico, viene nuovamente arrestato e rimane in cella quasi un anno, scrivendo spesso all’avv. Basilone. Nel carcere i secondini gli dicono: «Guaglio’, a te a cap’ nun t’aiuta». Il 25 agosto 1860, grazie all’amnistia del re di Napoli, torna libero e chiede al Ministero della Polizia borbonica di essere nominato ispettore di polizia. Pensando che le persecuzioni borboniche lo possano favorire, il 12 ottobre 1860 rinnova la domanda sottolineando «l’esposte prigionie, e vessazioni sofferte sotto il cessato dispotismo, perché di sentimenti liberali». Il prefetto di Napoli esprime parere favorevole.
A Piaggine, orgoglioso, allestisce il suo studio al n. 22 di Piazza del Popolo. Difende Pietro Chiano, un povero pastore, angariato dai signorotti e in particolare da Pasquale Rubano. Inaspettatamente vince la causa. Il pastore non lo paga, gli offre un montone. Rubano non tollera che il giudice ha riconosciuto le ragioni del pastore e lo assilla il fatto che i cafoni possano pensare di vincere contro i padroni senza neanche pagare e così, senza volerlo, l’avvocato Tardio entra nell’occhio del ciclone.
Venuto a conoscenza di una circolare del nuovo governo che invita i governatori a favorire lo sviluppo sociale e a sanare le questioni demaniali organizza una manifestazione per sostenerla. Sono una ventina e sventolano il tricolore, ma vengono aggrediti e ammanettati dai gendarmi usciti dal comune. Sono imputati di «manifestazione sediziosa per eccitare la popolazione contro i nuovi provvedimenti». È il 10 dicembre e Tardio finisce nuovamente in carcere. Spiega invano che è una manifestazione liberale in appoggio al governo e che l’arresto è un errore. È la vendetta dei galantuomini e il Sindaco lo accusa di essere reazionario e fomentatore di disordini e ne sconsiglia fortemente la nomina a ispettore di polizia.
Dal carcere di Laurino, Tardio evade la notte del 24 dicembre, non si sa come arriva a Roma ed entra in contatto con i sostenitori dei Borboni. Ha scelto un’altra strada. Nel carcere ha subito una metamorfosi politica: da giovane e entusiasta liberale sceglie di mettersi dalla parte di chi vuol riportare indietro le lancette della storia e del progresso. Vive sotto falso nome e Antonio Orsini incontra il re in esilio che lo incarica di fare insorgere il Cilento. Con 32 legittimisti il 18 settembre 1861 parte da Civitavecchia e tre giorni dopo sbarca a Trentova ad Agropoli. Alcuni fuggono, ma dei cilentani entrano nella banda e assaltano molti paesi del Cilento, dichiarando decaduto Vittorio Emanuele II, incendiando i comuni e le case dei liberali. Dell’assalto di Sacco ne parla l’on. De Boni alla Camera dei Deputati il 16 aprile 1863.
A Campora il 4 giugno, dopo aver letto il Proclama, cattura il parroco Vitantonio Feola, autore di un libro introvabile sul potere temporale del papa, dedicato a Vittorio Emanuele. Gli chiede un riscatto di 2000 ducati, che non ottiene. «Sei un prete e un monaco indegno, perché spieghi malamente il Vangelo, tu devi morire perché quest’ordine mi è venuto da Roma» e lo fa fucilare. Il 30 giugno il tribunale di Vallo spicca un mandato di cattura, ma riesce a rifugiarsi a Roma, dove protetto da un giudice borbonico vive sotto falso nome. La Pipolo riconosce che è stato «illuso». Con la conquista di Roma, il bersagliere Nicola Mazzei di Piaggine lo incontra e lo denunzia. È arrestato l’8 novembre 1870. Al processo a Salerno, difeso dall’avvocato Carmine Zottoli, si dichiara «prigioniero di guerra». Il 13 dicembre 1872 è condannato a morte, pena commutata nei lavori forzati a vita.
È rinchiuso a Favignana con una catena di 6 chili lunga 4 metri. Pare che dal carcere abbia invano scritto all’on. Ascanio Branca, deputato e ministro, compagno di studi al liceo di Salerno che nel 1859 aveva partecipato alla manifestazione per Vittorio Emanuele. Muore il 13 giugno 1892, forse avvelenato da una donna. La salma non viene resa alla famiglia. Al fratello Felice giunge solo la comunicazione dal carcere.
Per la sua cultura, se solo avesse percorso un’altra strada, anche l’avvocato Tardio – come Branca – sarebbe potuto essere eletto deputato e diventare ministro del regno e così Piaggine avrebbe avuto un deputato e un ministro molti anni prima dell’avvocato Carmelo Conte, deputato e ministro della Repubblica.