Il ponte è il limite di demarcazione tra la pianura e la collina, tra le masserie sparse nei poderi ariosi e le case compatte del centro abitato. Nella gola di Tremonti occhieggia e brilla al sole il Solofrone, dopo il salto ardito della cascata: impetuoso e limaccioso nei mesi di piena, rigagnolo zig-zagante nel letto ciottoloso nelle stagioni di magra. Il nuovo cimitero si apre alla vallata con il bianco accecante del muro di cinta ed i marmi screziati delle sepolture. Il vecchio, due tornanti più su, apre crepe alla rigogliosa invasione dei rovi; e la brezza scompiglia il tenero fogliame degli alberi a spontanea veglia di tombe abbandonate. Fu un antico convento e conobbe stagioni di splendore. A prestare orecchio all’eco della storia si materializzano canti di preghiera tra chiesa, chiostro e celle. A me accende memoria di entusiasmo tra cori opposti di tifoserie in quel rettangolo di campo sterrato, che conobbe, un tempo, prodezze di campioni di periferia ed oggi è tappeto bianco-rosa di pratoline sul verde del manto erboso. Cento metri ancora e il bar è palestra di scopa e di tressette all’angolo di strada sotto l’accenno di un pergolato che registra chiacchiericci fitti e lievi conversari interrotti, a volte da rimproveri urlati e facili bestemmie a sottolineare errori di partita. Ti accoglie così Giungano con quella manciata di case ai piedi del Cantenna che scivola con la colata verde bottiglia dei lecceti a protezione dalle rocce a catapulta dai dirupi ventosi di Trentinara. La facciata della Chiesa Madre fa da quinta alla minuscola piazza ed è testimonianza di fede e di preghiera, di dolore di lutti e gioia da matrimoni. E da Agosto si accende di luminarie e rifrange frastuoni di festa per Santa Maria Assunta, protettrice. È snodo per la variante: balconata sui campi coltivati, passeggiata lenta e sosta di riposo per pensionati, ladri di sole alle panchine sghembe, con negli occhi i brevi giardini di agrumi che accendono palle di sole compatto a decoro ed arabesco di verdi ombrelli di foglie. Ma il cuore antico del paese è dall’altro versante, in quella strettoia di strade che s’apre a ferita tra case e botteghe e che, a tratti, si squarcia a cunicoli di luce a conquista di valle o di montagna. Il portale di pietra di Palazzo Picilli lascia intravedere tra le fenditure l’ampio cortile e lo scalone monumentale e testimonia il fasto del casato. Di qui partiva il biroccio dei “signori” con a cassetta i giovani rampolli, invidiati dai coetanei meno fortunati e “mangiati” dagli occhi delle ragazze a caccia di marito o, per le più intraprendenti, anche di una semplice avventura. Destinazione la masseria di Cannito, simbolo della potenza del latifondo, a controllo di lavori e sudori di coloni e salariati. E torna alla memoria quella pagina di Plutarco, ripresa da altri storici autorevoli, secondo cui proprio qui si scontrarono nella battaglia decisiva le truppe dei legionari di Spartaco e di Crasso, prima che il libero la facesse finita per libera scelta o per mano d’altri a ridosso della fortificata Petilia sulla vetta del Monte Stella. Non è la sola, anche se di certo più importante, come la più discussa. Giungano comunque promette calda ospitalità nella serenità dei suoi paesaggi, testimonia tracce di antica nobiltà nei palazzi gentilizi e coltiva memorie di letterati e giureconsulti di discreta fama. Quel che resta di un ducato che, a giudicare dalle carte di archivio, fu potente e rispettato, è tutto nelle mura sbrecciate di un maniero alterato e manomesso nella struttura originaria e che, in cima al paese, domina sui poveri poderi che, verso Trentina e Cicerale, profumano, a margine di strada, di mortella, lentisco e finocchietto selvatico. E corvi e falchi roteano nel cielo terso o planano in picchiata a caccia di preda.
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