Di Massimo Sgroi La ricerca dei nuovi linguaggi, le relazioni che le nuove forme dell’umano hanno con la visione contemporanea e con la memoria, la ricerca delle dimensioni immateriali. Sono queste le tematiche che attraverso l’arte contemporanea e che la rendono differente da tutto ciò che è venuto nei millenni precedenti. La diversa concezione della filosofia dell’umano ha cambiato la forma dell’arte stessa, essa non è più obbligata alla stretta codificazione estetica del periodo anzi, nel rapporto invasivo con la tecnologia, si libera dagli schemi per manifestarsi attraverso il video, la pittura, le tecniche di realtà virtuali, le installazioni e la fotografia. Essere al centro della nuova funzione estetica significa identificare un luogo come detonatore dell’accadere artistico, renderlo relazionale alla mutazione della visione dell’uomo mediologico/immateriale, introdurlo nella concezione globale della cultura pur rimanendo fedele alla sua stessa identità di umano. D’altra parte diviene assioma centrale capire da dove proviene la nostra cultura, che ruolo hanno, nella complessa contemporaneità, la nostra storia e le nostre tradizioni e come, in questa esistenza contaminata dalla visione elettronica, il cuore del cyborg sia rivolto verso una memoria millenaria. Non esiste identità senza memoria; essa è rappresentata da cose talmente sedimentate nel ricordo da far parte del nostro essere abitanti di un luogo senza neppure pensare a ciò che ci circonda. Eppure basta guardare le opere di Gino Quinto; basta gettare lo sguardo sulla sue installazioni per accedere alla memoria assiomatica del nostro essere, per identificare le sovrapposizioni di oggetti con quello che noi siamo e con la terra cui apparteniamo. E’ la visione della bellezza “di scarto” che ci rende ciò che siamo; è la nostra cultura millenaria che ha fatto della permeabilità il nostro stile, il nostro modo di essere, che ci ha conferito la straordinaria apertura culturale che ci rende adatti alla vita anche sul confine del terzo millennio. Un’opera di Gino Quinto diviene più di ciò che è, rappresenta una alterità che significa, che identifica che ci permette di ricordare. Per questo osservare il lavoro dell’artista napoletano ha un senso per la nostra cultura, per la nostra appartenenza per la nostra capacità di sentirci uomini del terzo millennio senza dimenticare chi siamo. Per tutto basta guardare l’originale sintesi dell’opera dedicata a Pepe Mujica; apparentemente didascalica nella realtà messaggio essenziale e sintetico di una volontà e di una scelta di campo. D’altra parte quello che la sua sensibilità di artista coglie torna amplificato all’interno del mare della comunicazione contemporanea. Mai come ora l’arte di qualsiasi estrazione sia, riflette ciò che avviene nella vita reale senza, per questo, perdere la sua grande capacità affabulatoria. Essa è destinata, per sua stessa natura, a contenere archetipi e miti non potendo sfuggire alla maternità della memoria storica; perché solo così abbiamo l’illusione di poter guardare fino alla fine del tempo. Perché, anche nell’era del cyborg, ricordare significa comunque Essere.
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