Il 18 maggio 2021, il mondo della Cultura contemporanea perde uno dei suoi figli più grandi, Franco Battiato. L’ultimo baluardo di un novecento andato, lontano dalle omologazioni stilistiche e commerciali dell’era digitale attuale. È davvero riduttivo definire il Maestro come un semplice cantante pop. Il suo percorso artistico è sempre stato in perenne rivoluzione e ricco di studi, di profumi, di lingue, di culture, di filosofia, di meditazione, di fede, di misticismo. Ha sempre coltivato un’infinita voglia di conoscere, di esplorare ed evolversi. Un ricercatore libero e coraggioso, sintesi di un mondo “futuristico” parallelo che, per il suo seguito, la logica di mercato ha sempre dovuto confermare, seppur condizionato da un’originale e spesso complessa idea di arte.
Prima del grande successo, con la pubblicazione de “La voce del padrone” (1981), di rilievo è il periodo sperimentale degli anni ’70, dove si consacra pioniere indiscusso della scena underground italiana. Esperimenti di rara natura avanguardistica e concettuale, di cui è opportuno citare “Fetus”; “Pollution” ( entrambi del 1972) e “Click” (1974). La svolta “pop” avviene con il disco “L’era del cinghiale bianco” nel 1979. Troviamo in questo spazio temporale, la collaborazione con il cantautore cilentano Michele Pecora. Lo abbiamo raggiunto per ricordarla.
Michele, cosa ricordi di questa collaborazione?
È stata una collaborazione un po’ anomala. Nacque tutto da un’idea della Warner, la mia casa discografica di allora, che propose di realizzare un testo per una canzone destinata all’attrice Catherine Spaak. Incontrai Battiato in sede per definire e realizzare il lavoro. Il brano “Canterai se canterò” fu poi ripreso da Milva, con un altro titolo, “una storia inventata” (1989). Una breve collaborazione, unica, ma molto intensa. Ironia della sorte, Milva ci lascia giusto qualche giorno prima.
Cosa ricordi in particolare di Battiato e della canzone scritta insieme?
Battiato l’ho sempre definito un rivoluzionario della musica, un grande ricercatore, uno sperimentatore. Aveva una visione avanzata. Un uomo d’altri tempi per educazione, per modi e per garbo, ma con una visione straordinaria del futuro. Del brano rimase contento e fu molto apprezzato il mio apporto. Un ricordo veramente piacevole che custodisco sempre con me. Inoltre, si può dire che tra gli autori troviamo i quattro nomi più importanti della musica italiana di quegli anni, oltre Franco Battiato e Giusto Pio, collaborano alla stesura Roberto Danè, produttore di diversi dischi di De Andrè e Pinuccio Pirazzoli, grande arrangiatore che oggi vediamo spesso in RAI. Per me fu un premio, un riconoscimento speciale, oltre che un’opportunità. Confrontarmi con loro voleva dire imparare cose straordinarie.
So che stai lavorando ad una raccolta nella quale verrà inclusa una tua versione del brano che mai avevi pubblicato prima.
Mai. Dopo tanti anni, parliamo del 1979, decido di inserirla con una mia versione in questa raccolta dove saranno ripubblicate e rivisitate tutte le mie canzoni degli anni ’80.
Cosa ci lascia Battiato?
Sono stato colto da grande tristezza perché a questi grandi personaggi, sembra si dia per scontata la loro presenza, come se non potessero mai tramontare e quindi neanche mai lasciarci, la sensazione di non dovergli mai dire addio. Purtroppo poi, questo capita e ci coglie tutti impreparati. L’anima non muore, ma ciò che muore è quello che non riusciamo a capire.
Fortunatamente ci rimane la sua opera.
Credo sia riuscito a trovare la strada giusta quando ha elaborato insieme gli elementi sperimentali dei primi tempi e una musica di più respiro, generando una eccezionale particolarità di messaggio, per le strutture, per le melodie e per i testi. Ci sono dei grandi capolavori nella sua produzione.
Ti andrebbe sceglierne uno?
Mi verrebbe da dire “La cura” perché rappresenta la somma esatta ed evidente del suo essere, sia musicalmente che umanamente. Era così, aveva questa forte capacità di comprendere, di tollerare. Una sensibilità unica.
Intervista a cura di Angelo D’Ambrosio