Bergoglio è il terzo pontefice non italiano, dopo Wojtyla e Ratzinger, conseguenza di un profondo processo storico che ha determinato la fine del papato italiano e fatto emergere l’esigenza di porre al vertice una figura svincolata dalle potenze europee, da conflitti o tradizionali alleanze. Grazie a queste circostanze, il papa ha sviluppato un profilo internazionale sempre più rilevante di padre comune, per la sua neutralità è accettato come mediatore di pace, situazione che rimanda alle scelte di Benedetto XV e Pio XII durante i due conflitti mondiali. La fine della serie dei papi italiani ha significato anche la cessazione del papato europeo, anche se, nel 1978, il pontefice eletto era polacco e nel 2005 tedesco, ecclesiastici europei alla guida di una Chiesa meno condizionata dalle vicende del vecchio continente.
La spinta missionaria ha fatto crescere il cattolicesimo, favorendo le Chiese locali. Giovanni XXIII e Paolo VI, pur confermando il legame particolare con la Chiesa italiana, hanno proceduto ad una reinterpretazione, liberando la Santa Sede dal pervadente orizzonte post-risorgimentale. Oggi il papa si concepisce anzitutto come il vescovo di Roma; negli incontri con i vescovi italiani, più volte Francesco ha richiamato le loro autonome responsabilità facendo capire che occorre superare il modello ruiniano nel sollecitare la presenza pubblica per affermare i cosiddetti valori non negoziabili, secondo una nota espressione di Benedetto XVI. Egli invita il cattolicesimo italiano a riflettere sulle tematiche dello scontro di civiltà con registri diversi da Giovanni Paolo II, deciso nel pronunciarsi contro le guerre del Golfo e in Iraq.
Le dimissioni di papa Benedetto sono un evento destinato a restare nella storia dell’umanità e della Chiesa perché non ha solo un significato religioso per i cristiani, s’interseca con le dimensioni sociali, culturali e dei costumi. Non dettato solo da motivi di salute, rimanda alle complesse dinamiche che hanno caratterizzato il pontificato di Ratzinger, il teologo in un mondo globalizzato scelto per fare da baluardo a un’invadente modernità, insidia per i valori non negoziabili. Presso l’opinione pubblica egli ha subito le conseguenze degli scandali per il comportamento personale di alcuni ecclesiastici, i giochi di potere e gli intrighi economici nella curia ad opera di collaboratori di vertici che hanno cercato di profittare della sua debole leadership. Joseph Ratzinger si è dovuto scontrare con situazioni che non immaginava, dinamiche all’interno della curia che hanno reso ancora più desiderabile l’ipotesi manifestata già nel 2010 rispondendo al giornalista Peter Seewald: “Quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli allora ha il diritto e in talune circostanze anche il dovere di dimettersi”. La sua decisione ha determinato un punto di svolta sollecitando il cambiamento, divenuto improcrastinabile per la necessità di aprirsi alla contemporaneità andando oltre il radicamento nel contesto europeo e occidentale e calarsi nelle correnti e nelle culture del mondo globalizzato per elaborare una nuova visione geopolitica. Necessario ponte tra Oriente e Occidente e nei rapporti tra le religioni, il papa dirige la chiesa chiamata ad operare oltre il recinto cristiano per difendere lo spazio religioso di tutta l’umanità. Rispetto a queste esigenze la curia vaticana al suo interno era divisa in fazioni con al vertice il gruppo di potere legato al cardinale Bertone, al quale si contrapponevano gli eredi della diplomazia montiniana, che avevano vissuto le trasformazioni della Chiesa fin dagli anni del concilio aprendosi alle esigenze della democrazia e della libertà d’informazione, di coscienza e di culto. Oltre ai tanti ondivaghi pronti a cogliere l’occasione per schierarsi col vincitore del momento, attivo era ed è anche il gruppo dei conservatori. All’interno di queste fazioni è prevalso l’orientamento di scegliere come successore di Ratzinger un papa extra-europeo, né italiano né espressione della curia, opzione salutata come possibile nuova primavera per la chiesa cattolica.
Papa Francesco, formatosi nel contesto latino-americano, è meno interessato a ridefinire equilibri ecclesiastici perché impegnato a individuare scelte il più possibile vicine al Vangelo riproponendo il nucleo centrale del messaggio del Vaticano II. Rispetto alla crociata dei valori non negoziabili, Bergoglio insiste sul tema dell’incontro col povero e dell’accoglienza dei migranti, problematiche con dimensioni universali presuppongono un radicale cambiamento della visione antropologica, teologica ed ecclesiologica. Dio è il Signore della misericordia di cui parla il Vangelo e Francesco spinge la “Chiesa in uscita” a trasformarsi in “ospedale da campo” dell’umanità. La sua formazione si radica nel
Medellin è stato l’evento di grande rilevanza per il cattolicesimo dell’America Latina. Esso ha tratto spunto dal Patto delle Catacombe che ha sancito l’impegno di vita personale ed ecclesiale di alcuni vescovi nel novembre del 1965. Si è sollecitato un metodo teologico capace di sostituire l’idea di sviluppo con quella di liberazione, frutto della riflessione sul Vangelo per impegnare la chiesa a superare la fase di oppressione e spoliazione dell’America Latina e costruire una società più giusta e fraterna. Il punto di vista del povero ha animato il lavoro teologico per garantire agli ultimi un efficace annuncio del Regno di vita. Determinante è risultato l’esempio di povertà e il martirio di mons. Romero, il quale ha basato la sua testimonianza sullo spirito di povertà, il senso di Dio e la speranza nel mistero di Cristo per costruire la civiltà dell’amore delineata da Paolo VI. Egli è un esempio di vescovo-pastore capace di amalgamare fede e politica senza procedere a una controproducente identificazione; nel suo operare salvaguarda il sentire con la chiesa divenendo profeta per il popolo e del popolo, accolto dal potere costituito come un noioso annunciatore di geremiadi. La formazione di Romero si sostanzia di connotati romani, illuminata dal Vaticano II, così come lo ha esplicitato Paolo VI, preoccupato per l’acuirsi della crisi che in America latina incentivava i contrasti con Roma. Nel suo operare mons. Romero sperimenta una sostanziale solitudine perché segue la voce della coscienza che non gli risparmia le critiche di tanti presuli, confratelli-coltelli. La situazione diventa sempre più complessa man mano che aumentano le sue responsabilità. In molti lo tirano per la tonaca proponendo disparate prese di posizione, alle quali risponde confermando il primato della salus animarum. L’establishment vaticano per anni ha assunto un atteggiamento critico per salvaguardare le prerogative del controllo curiale. Romero, che opera in un lembo estremo dell’Occidente, non riesce a far comprendere le proprie istanze di pastore a chi giudica con categorie rigidamente occidentali e burocratiche. Così la sua vita si trasforma in martirio del personale magistero, patito per essere fedele alla Chiesa e alla carità per il suo amore verso i poveri.
Le dinamiche internazionali della guerra fredda lo hanno stritolato per la pervadente azione di epocali rigidi ingranaggi. La sua evangelica santità evidenzia anche il colpevole ritardo della Chiesa romana che non gli lascia spazio, se non quello del martirio della testimonianza. L’arcivescovo si dovette confrontare con l’arroganza impunita di una destra violenta e dei militari che la sostenevano, mentre molti cattolici alla precedente passività politica sostituivano la ribellione, motivata dalle istanze d’ispirazione cristiano-sociale delle organizzazioni popolari. Il clero, anche se in forma ridotta, diede in termini simbolici e pratici il proprio sostegno, che si rivelò presto efficace. L’assassinio di Romero divenne l’occasione per eliminare la più autorevole voce contro la violenza e la dilagante guerra civile, che sperimentavano un crescendo incontrollabile. Insanabile era la frattura con l’oligarchia che tradizionalmente sosteneva cattolicesimo, clero, chiese in cambio di garanzie di stabilità nei confronti del regime. L’impellente necessità di applicare le disposizioni conciliari e lo sviluppo della dottrina sociale erano percepite come una proposta alienante, che rischiava di far perdere terreno a una tradizione religiosa già insidiata dalle sette neoprotestanti provenienti dal Nord del continente e caratterizzate dal loro fondamentalismo.