Mentre riprende anzi addirittura raddoppia gli elementi più iconici del paesaggio napoletano, estraendoli per mano di un sapiente copista indiano dal repertorio delle gouaches ottocentesche, francesco clemente vi innesta di suo pugno una quantità di motivi altri, esotici e stranianti agli occhi di chi conosce a menadito i temi classici della cartolina partenopea. e’ una questione di principio, dunque etica ed originaria. da una parte, l’idea del paesaggio che è sempre rappresentazione, replica, copia di una realtà che, ben riprodotta, penetra nell’immaginario; dall’altra, l’immagine in quanto tale così eterea e volatile, disposta ad andare in molte direzioni. il pittore che è clemente prende le gouaches dei fergola (suoi avi di sangue e di mestiere) e ne fa fare copia, talmente copia che ogni immagine diventa il duplicato che si duplica a sua volta. ogni paesaggio infatti è già il suo doppio: non il vesuvio bensì due, così il san carlo, il castel dell’ovo e via raddoppiando. sembra un gioco di specchi, ma in effetti si tratta di una speculazione, anch’essa ambigua come ogni forma di rappresentazione: lo spazio dell’opera si apre a una moltitudine di altre possibili figure, le quali però non sono in se stesse l’essenziale. confrontandosi intensamente con la tradizione iconografica partenopea, uno dei repertori più solidi e conservativi della storia artistica locale, la pittura di clemente non smette infatti di raccontare un universo frammentato ma non insignificante, mostrando una fragilità che non si rassegna alla debolezza, ma neanche pretende di elevarsi a visione del mondo. la moltitudine apparentemente infinita delle immagini che piovono dal cielo o emergono dalla terra o schizzano da un parte all’altra, la presunta erudizione di riferimenti difficili da individuare, spesso letterari o provenienti da iconologie lontanissime e oscure, la comparsa di timbri e sigilli esoterici, formano un complesso figurativo simile a una costruzione cosmologica di stampo neoplatonico. non v’è dubbio che la città-mondo è napoli, dove tutto si trasforma restando uguale e viceversa. l’essere che è mutamento. la ripetizione che è differenza. l’uno che è anche due. nel suo viaggio di ritorno alla città natale clemente ha rovistato nel doppiofondo di un baule di ricordi seppellito nella cantina di famiglia, manipolando tra le vecchie cose anche il suo destino d’artista e, alla fine, trovando quello che ha sempre saputo di avere e di volere. le vecchie cose, come le gouaches degli avi fergola, non sono che immagini remote di specchi; più che ricordi reali, metafore astratte del tempo passato. anche napoli non è che una metafora, una delle principali metafore del paesaggio dipinto. questo ha affascinato l’artista cosmopolita. il pensiero figurativo, che è il modo in cui ragiona clemente, è mutevole e opera solo connessioni metaforiche. le metafore possono dire molto, connettere mondi lontani ed esperienze diversissime tra loro, parlando un linguaggio che trattiene e comprende anche ciò che non c’è, che mai ci sarà o che non può essere nominato con chiarezza. venuta dall’ottocento dei vedutisti, sbarcata nell’india dei copisti e poi nella new york delle ultime avanguardie, ecco la città bella e antica, forse mai neanche esistita, che può essere rivista e ancora ammirata con pensieri e linguaggi moderni. senza pretese di verità e senza cedere alle finzioni e alle mode, metafora delle metafore, napoli è il nome dell’immagine metamorfica, catturata tra gli specchi e condannata a somigliare a se stessa fino all’eccesso e all’assurdo. un paesaggio spaesato, come dice clemente.
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