di Giuseppe Liuccio
Come promesso la settimana scorsa, il tema della settimana di oggi nella rubrica LA NATURA HA UN’ANIMA è dedicato al fico, un albero familiare nel paesaggio rurale del Cilento e ricordo che…
Negli anni lontani della mia infanzia all’alba armati di uncino e paniere, eravamo tutti intenti, per ore, allo spoglio di fichi stracarichi di frutti zuccherosi fino a quando l’arsura della canicola consigliava riparo all’ombra amica. Qui si procedeva alla selezione del prodotto: i moscioni di prima qualità da allineare con meticolosa precisione sui graticci di canne, gli altri interi o spaccati in bella mostra su intrecciate di ginestra, e via all’esposizione del sole “seccafico” che picchiava duro, sull’aia “passolara”. E per una settimana e passa il paziente lavoro di “gira e rigira” per una essiccatura omogenea, con l’occhio vigile a qualche nuvolaglia per l’emergenza di un rapido riparo per l’improvvisa “trupeia”, che potesse mettere in pericolo il raccolto e vanificare le speranze di un introito atteso per mesi. Se la pioggia coglieva d’improvviso uomini e frutti, impedendone il ricovero, il forno a ridosso della casa provvedeva ad arrosolare moscioni e spaccate, eliminandone l’umidità, anche se declassava il prodotto a seconda scelta. Ad ottobre avanzato ,poi,c’era il via vai per il paese di incettatori e mercanti a pignolare sulla qualità per tirare sul prezzo. Quel che non si collocava sul mercato lo si destinava al consumo di famiglia come provvista per i mesi del tardo autunno e dell’inverno. Che profumo ad apertura di cassa con “moscioni” allo spolvero di zucchero per autoproduzione! Che poesia le “pupe”, i “mostaccioli” e le “iette” a figurare fantasie geometriche, croci, madonne e zite a paziente confezione di nonne e mamme! Che delizia i profumi delle infornate a carico di tasche di giacche e cappotti, poveri e sgualciti da sgranocchiare, ammollendole per ore in una con pane croccante! Che festa di profumi ed aromi alla cena e al pranzo di Natale con mandarini, arance, sorbe, l’ultima uva “roia” e gli immancabili fichi a farla da protagonisti! Oggi nelle campagne del Cilento i fichi si coltivano ancora, anche se in misura ridotta rispetto alle stagioni della mia infanzia. Negli ultimi decenni, però, si nota una promettente ripresa. Il frutto ha una buccia rugosa di color giallo chiaro e la polpa ha una consistenza pastosa. La produzione anche oggi la si ottiene ad agosto/settembre; quella tardiva con una ventina di giorni di ritardo.
Anche l’albero del fico come i suoi frutti vantano origini sacre che risalgono ai miti, che sono tanti. Ne scelgo alcuni significativi: il titano Sykèus (da sychè=fico) per sottrarsi a Zeus che lo stava inseguendo si rifugiò presso la madre Gea. laTerra; la madre avrebbe, poi, fatto sorgere dal suo grembo l’albero, che ricorda il figlio nel nome. Un altro mito narra che nel legno del fico era intagliato il fallo rituale, simbolo di Dioniso, e che veniva portato in processione durante le “falloforie”, in quanto nel simulacro di esprimeva l’energia del dio che vegliava sulla fecondità e fertilità di piante , animali ed uomini. Ed il “fallo”, così costruito, veniva cantato con questi versi dal mitico Orfeo: ”e gli uomini spingeranno in processione ecatombe perfette, ogni anno, ogni stagione e riti segreti celebreranno…” La letterarietà sia dell’albero che dei frutti viene cantato da due giganti della letteratura mondiale:Dante e Omero. Il primo nell’Inferno rievoca il gesto volgare ed osceno di scherno, “fare le fiche”, che consiste nel volgere contro qualcuno il pugno chiuso, tenendo il pollice tra l’indice e il medio “alla fine delle parole il ladro/le mani alzò con amendue le fiche/ gridando”Togli Dio ch’a te le squadro”. Il secondo nell’Iliade indica il punto di adunata dell’esercito con questo verso che aveva anche forza di propiziazione prima della battaglia:”al caprifico i tuoi soldati aduna”. Nella nostra lingua,poi, il sicofante, derivante dal greco: sycon= fico e phainein=svelare, mostrare, è diventato sinonimo di delatore, con il quale in Grecia veniva indicato colui che esportava i fichi di contrabbando o li rubava dagli alberi sacri. In Attica, infatti, era proibito esportare i fichi considerati prodotti di prima necessità e addirittura peccato di profanazione se rubati dall’albero considerato sacro. Bastano questi pochi esempi per dimostrare quale e quanta importanza avevano albero e frutti del fico, cosa che dall’antica Grecia è arrivata fino alla civiltà contadina. Un motivo in più perché le istituzioni del nostro territorio, a cominciare da Parco, recuperino ed esaltino la nostra storia, la nostra cultura e le nostre tradizioni. E sarebbe lodevole incoraggiare le numerosissime preparazioni del fico dottato del Cilento’. L’essiccatura al sole, quella di un tempo, è sempre più rara. E così rischiamo di perdere una specialità della nostra pasticceria, vale a dire “i fichi mpaccati”,ovvero ripieni, a seconda delle ricette, di noci, mandorle, scorze di arancia ,mandarino o limone e, soprattutto, fiore profumato di finocchietto selvatico . Sarebbe un fatto di civiltà oltre che dovere istituzionale di Parco. Fondazioni e comuni :recuperare queste tradizioni. Anzi , per dirla tutta, sarebbe un fatto di sensibilità e di cultura. Ma, come dicevano i latini: “nemo dat quod non habet.” E sensibilità e cultura non si comprano tanto al chilo. O ce l’hai o non ce l’hai. E noi cilentani siamo sfortunati: alla nostra classe dirigente, salvo poche e lodevoli eccezioni, SENSIBILITA’ E CULTURA mancano. PURTROPPO!