La religione ha riscontri nell’insieme di significati che essa riesce a dare al mondo, alla storia, alla vita di ogni individuo e continua a conservare valore grazie alla fede, la quale mette in contatto il singolo o un determinato gruppo con l’Assoluto, percepito non tanto grazie all’elaborazione del pensiero, ma come coscienza di un concreto contatto. La Chiesa fonda il suo operare su questo concetto e contribuisce a sviluppare solide basi comunitarie ed identità di gruppo, elaborando una lettura sacralizzata dell’ordine sociale e creando nuovi simboli e ruoli per le sue istituzioni. Oggi, data la dicotomia tra logica della post-modernità in un contesto sempre più a-religioso o irreligioso ed il persistente bisogno di trascendenza, è facile prevedere una trasformazione delle forme di culto e quali effetti ciò determina sui comportamenti. Molti ritengono il “divino” momento meramente privato insidiando il ruolo della Chiesa. Un siffatto cambiamento travolge le istituzioni religiose e le costringe a cimentarsi in dinamiche che spesso non trovano riscontro in passate esperienze.
Uno studio della spiritualità e della ritualità, che non ceda a facili schemi antropologici o a vuoti sociologismi, può contribuire a tracciare le linee guida della Chiesa, in particolare di quella locale, per un futuro e fecondo processo di evangelizzazione. Per la comprensione delle manifestazioni culturali connesse al cristianesimo è necessario ricorrere ad una scansione temporale di lunga durata e coniugare le esigenze del tempo storico con le prospettive di quello religioso alla ricerca di un equilibrio che, per la sua natura, rimane evidentemente precario. Sono problematiche complesse che richiamano la metodologia implicita nella parabola evangelica del seminatore.
Nel racconto Gesù evidenzia non tanto la percentuale di rendimento del seme – vale a dire la risposta al problema meta-storico del “chi sia il Cristo” – ma i luoghi di caduta: la strada, dove è calpestato e beccato dagli uccelli, la roccia priva di humus, le spine soffocanti, il buon terreno. Sono elementi simbolici individuabili anche nel territorio e tra la popolazione del Cilento, dove si registra sia la presenza di impermeabili reazioni all’annunzio sia il “buon terreno” delle coscienze di tanti uomini e donne, nelle quali si è radicato il Vangelo, benché le apparenze inducano a sostenere il contrario. In particolare, i Cilentani conservano un’anima naturaliter christiana, se con quest’aggettivo ci si riferisce alla religiosità ed alla ritualità legate alla magna mater e al ciclo delle stagioni. E’ una fede caratterizzata da sentimento ed ethos e non da approfondita conoscenza teologica di un cristianesimo edificato sul concetto mediterraneo del sacrum. La ritualità, la partecipazione liturgica e le numerose tradizioni rimandano al sottofondo pre-cristiano che incide, e non sempre negativamente, su mentalità, usi, genere di vita, tipici della realtà contadina. Ad un viscerale attaccamento al protettore, ai santi, alla Madonna, spesso venerati più dello stesso Dio della teologia, nella popolazione si nota un larvato e diffuso anticlericalismo. Nelle classi più umili esso è retaggio dei secoli passati, quando il clero s’identificava o si alleava con il ceto dominante; nella borghesia ed in parte dell’intellighenzia è una manifestazione di preconcetti, raramente di scelte ideologiche. Nella diocesi queste fratture hanno raggiunto punte allarmanti per l’accresciuta incapacità di mediazione, che induce al distacco, all’abbandono o al rifugio in circoli autonomi, i quali anche quando non si schierano contro la gerarchia, non riescono ad animare la chiesa locale. La “diffidenza verso i preti” è palese se si pensa, ad esempio, alla risicata partecipazione alle celebrazioni più significative dell’anno liturgico e dei sacramenti dell’iniziazione cristiana o di passaggio. Di questi ultimi viene sempre più percepito soltanto l’elemento giuridico con riscontri meramente formali. E’ lo scotto che si paga a passate enfasi clericali col conseguente ridimensionamento di tanti carismi nel momento in cui la crisi delle vocazioni ed il sostanziale rifiuto del modello tridentino di sacerdote hanno toccato punte quasi di non ritorno. La maggioranza dei fedeli considera la chiesa un’istituzione del vescovo e del clero. I parrocchiani sono lontani e deresponsabilizzati, nonostante i propositi di dar vita ad organismi di partecipazione richiamandosi allo spirito del Vaticano II.
Nei fatti e senza procedere a teorizzazioni molti hanno trovato un’alternativa alla religione di chiesa privatizzando il culto e facendo precipitare nel subconscio quanto attiene alla religiosità; altri si riconoscono in nuovi gruppi per rifondare il momento comunitario della loro pratica liturgica. Pochi reclamano ruoli non solo nel campo caritativo, cultuale ed amministrativo, ma anche pastorale. Il riscontro pratico più preoccupante di questa congiuntura probabilmente è la laicizzazione della morale . I soli modelli di partecipazione collettiva vincenti e coinvolgenti ancora oggi sono le festività patronali e i pellegrinaggi.
In effetti, in passato, le feste erano momenti di integrazione per una società statica e per molti aspetti chiusa e permettevano di sperimentare significativi momenti comunitari, in cui si allentavano le prescrizioni e le severe regole che controllavano le relazioni interpersonali. Una certa libertà, accompagnata ad un intenso momento d’acculturazione, consentiva agli adulti di riconfermare la propria fede e consolidare l’adesione alle tradizioni ed al codice sociale, insieme di precetti e di dettami etici da trasmettere alle giovani generazioni. Un’evidente testimonianza, a questo proposito, è costituita dalla festa in onore di San Pantaleone a Vallo della Lucania, la cui portata scenografica conserva molti significati e memorie della passata storia e vita materiale. Esemplificativo è il modo in cui tuttora si svolge la processione. Le statue che fanno corona al protettore ricordano la secolare tradizione di culti e devozioni familiari verso santi venerati in cappelle di patronato: fedeli e beati oggetto di devozione, accettando la gerarchia di funzioni delle schiere angeliche, si dispongono in fila secondo rigide precedenze per esaltare qualità e ruolo del protettore principale.
È vero che a prevalere sovente è l’aspetto folcloristico; tuttavia, anch’esso costituisce una testimonianza di radicate emozioni e di pervadenti dinamiche sociali. Col dare parola e significato a pulsioni che trovano riscontro in manifestazioni di religiosità sorte in una zona per secoli confine ed osmosi tra liturgia greca ed essenzialità della pietà latina, la chiesa locale anche attraverso “la festa” esercita la propria funzione evangelizzatrice. La fedeltà ad una prassi di tollerante catechesi si rivela, dunque, la migliore dimostrazione del costante impegno del cristianesimo a salvare tutto l’uomo, considerazione da tener presente nell’applicare disposizioni e raccomandazioni delle recenti “Norme per le feste religiose” della Conferenza Episcopale Campana, adottate per porre riparo a situazioni incancrenitesi in precisi contesti sociali e che dovrebbero essere affrontate in modo più diretto per evitare di far fare al documento “Evangelizzare la pietà popolare” la fine di tante grida di manzoniana memoria.