di Monica Acito L’afa umida e selvatica del primo giorno di agosto, il cielo che respira a fatica e l’aperta campagna che si difende timidamente con le sue fronde leggere: il centro abitato è lontano, tanto lontano, le sue voci giungono ovattate e rimbombano in quest’isola incastonata nell’aperta campagna. Un’isola che fissa le proprie leggi, i propri orari, dove tutto è scandito dalla lentezza e dal respiro sincopato, dove ogni cosa galleggia e fluttua in una dimensione quasi alienata, un microcosmo che riaffiora dal tessuto del borgo e si pone al di là di esso. L’orizzonte della casa albergo per anziani Giovanni Paolo II di Felitto è inciso sul volto rustico degli ultimi scampoli della campagna felittese che muore, è un microcosmo che funziona quasi come una cittadella che raccoglie le vite di chi ha un peso sullo stomaco, una ruga sulle mani o una storia da raccontare. Percorriamo la salita ed entriamo nella struttura: Letizia, Presidente della Cooperativa Auxilium, legata da quattro anni alla casa di riposo di Felitto, ci accoglie, ci sorride in modo materno e sicuro di sé e chiarisce ogni nostro dubbio, permettendoci di saperne di più. Come ogni cooperativa, vi è una impostazione di tipo gerarchico: vi sono i soci ovviamente, operatori socioassistenziali, infermieri, addetti alle pulizie, cuochi, stagisti. Le finalità che la casa albergo si propone di realizzare nel tessuto del paese? Naturalmente, come ci fa capire Letizia, quella di erogare un servizio per il paese, nonché incrementare le ricadute occupazionali. Le operatrici socioassistenziali vengono scelte in base ai curricula e alle esperienze maturate, nell’ultimo periodo vi sono anche delle stagiste, come ad esempio Angela Bove, una ragazza di Felitto che da un mesetto si occupa di aiutare la direzione negli ambiti della contabilità e dell’amministrazione, in un’ottica di flessibilità generale: come se si trattasse di una grande famiglia. Le stagiste sono ospiti della cooperativa Auxilium e si riallacciano al progetto “Garanzia Giovani” svolgendo attività di tirocinio presso la casa albergo. In qualità di presidente della cooperativa, chiediamo a Letizia di tracciare un bilancio di questi ultimi quattro anni: ci parla di un racconto prevalentemente positivo, malgrado le difficoltà e i momenti tortuosi, come quelli dati dai rapporti dalle utenze esterne, l’Asl in primis, o quelli costituiti dalle difficoltà geriatriche, in quanto scarseggiano medici specializzati nel territorio, ma in ogni caso gli utenti sono comunque seguiti da un medico di base. Non bisogna ignorare neppure le difficoltà scaturite dal fatto che la cooperativa è autofinanziata. Il tramonto è vicino, le chiazze violacee tingono il cielo con guizzi impressionistici, entriamo e c’è l’odore della cena: tra poco gli anziani utenti mangeranno, un’atmosfera di quieta malinconia ci avvolge nelle sue spire dolci e amare. No, non è quella malinconia violenta che sa di disperazione, è la malinconia tenera che sa di tranquillità, gli anziani ci sorridono e sembra di scorgere sulle loro labbra rugose la beatitudine dei fanciulli, dei bambini e di chi vive nel proprio candore onirico, al riparo dagli affanni e dalle pene del mondo al di là del cancello. Ogni tiepida emozione, sorriso, risata o sensazione è sperimentata entro il confine rassicurante del cancello, che non è filo spinato, ma è piuttosto come la siepe di Leopardi, racchiude un universo con i suoi colori, le sue tinte e i suoi suoni: Letizia ci rassicura e capiamo che il cliché che vuole gli utenti delle case di riposo depressi, nevrotici e maltrattati è uno stereotipo che non si confà a questa situazione. Ci spiega, (e abbiamo anche modo di appurarlo, percorrendo la struttura, osservando le camere e assistendo al momento conviviale) che i 24 utenti, la maggior parte ultraottantenni, agricoltori e provenienti da Felitto o da paesi limitrofi, hanno creato tra loro una miscela ben amalgamata, una mini rete sociale di simpatie, affiatamento, amori platonici, e ciò demolisce il luogo comune che li vorrebbe incollati ad un letto in attesa degli ultimi rintocchi prima della morte, o intenti a segnare sul calendario gli ultimi giorni che li separano dalla fine. In effetti questo luogo comune è così radicato nell’immaginario collettivo che anche noi siamo entrati con molte, moltissime riserve, ma soltanto le persone poco intelligenti rimangono ancorate agli stereotipi che non tengono conto del volto multiforme della realtà. Le chiediamo di illustrarci la routine della struttura, per completare un po’ questa visita che trascende l’intervista e si riallaccia più ai toni del dossier: la mattina vi è la colazione comunitaria e l’infermiera somministra il farmaco a chi ne ha bisogno, durante la metà della mattinata gli utenti possono impiegare il loro tempo come meglio ritengono opportuno: c’è chi ama passeggiare respirando gli umori della campagna, c’è chi è più autonomo e riesce anche a prendere il pullman per recarsi a Roccadaspide, c’è chi gioca a carte, guarda la televisione o si diletta a modellare la pasta per i fusilli o a realizzare piccole opere con ago e filo. Il pranzo e la cena sono le ultime due tappe della giornata prima di recarsi a letto, generalmente dopo le prime luci del tramonto. Ci colpisce una signora che passeggia fuori da sola mentre gli altri utenti cenano, quasi come se vagasse nel suo mondo: si chiama Teresa. Ci avviciniamo a lei perché la vediamo impaziente di raccontarsi o di sputare sulla carta scritta qualcosa che le appartiene. Teresa ha un vestito a fiori. E’ di Sant’Angelo a Fasanella e ci narra la sua storia, rabbuiandosi in volto come un bosco d’inverno. Mi tiene la mano mentre trema e i suoi occhi iniziano a stillare perle di lacrime, confondendosi tra le ciglia e i fiori gialli del suo vestito. Teresa è epilettica, è arrivata presso la casa albergo in una condizione di abbandono, ci racconta di essere stata vittima di un’educazione maschilista e repressiva e di essere nullatenente perché sua madre non l’ha mai davvero accettata, dando ogni avere ai suoi fratelli. Ci narra del distacco dall’uomo che ha amato per vent’anni, che ora si è rifatto una vita a Roma e non le risponde più al telefono perché ha un’altra donna e non ricorda più gli occhi di Teresa. Fa una pausa, come se si stesse preparando a mormorare l’ultimo atto della sua personale tragedia: Teresa ha tentato il suicidio. Era febbraio del 2015, il cielo era terso, Teresa si era recata sulla tomba di suo padre per parlargli, aveva urlato contro quella lapide di marmo incapace di ascoltarla, aveva invocato il cielo ma aveva scelto di arrendersi, trascinandosi verso una pianta di gelso in campagna. Aveva affidato ai rami le sue lacrime e la sua fine. Aveva appeso una fune, e si era preparata a stringerla attorno al suo collo, ma suo padre in quel momento decise di risponderle, accarezzandole l’anima e dicendole che avrebbe dovuto riemergere da quell’apnea. Teresa sciolse la fune e chiese aiuto, si fece indirizzare alla casa albergo ed ora è qui. Viveva in uno stato di indigenza estrema, sembrava una barbona di cent’anni ed ora indossa un vestito a fiori. Teresa si commuove parlandoci di Letizia, dell’infermiera Chiara, e di tutta la gente che le ha fatto del bene e che ogni giorno l’aiuta a colorare sempre di più la sua primavera, ora che è al riparo dalla notte e dai singhiozzi. “Io me ne andrò da qui soltanto morta”. Teresa non è più un bosco scuro, porta i fiori nei vestiti e nell’anima. Un ultimo sguardo alla struttura e salutiamo la casa albergo di Felitto, portando anche noi tra le mani un fiore di umanità.
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