di Oreste Mottola
Stefano Roncoroni, nipote di Ettore Majorana, lo scienziato scomparso da Napoli nel 1938, ha appena scritto un libro nel quale rivela un segreto di famiglia, la morte avvenuta solo un anno dopo, nel 1939, del celebre fisico. Azzera così tutta una vasta letteratura sull’argomento e conferisce valore alla cosiddetta “pista cilentana” con le tracce delle ricerche nel 1938, a Perdifumo, da parte dei fratelli del fisico. Regista televisivo, amico e collega di Camilleri, in Rai è stato direttore di rete. Dopo il pensionamento e un grave lutto familiare, Roncoroni ha deciso di mettere ordine in un’antica storia di famiglia datata nel 1938. Chi scrive quest’articolo ha più volte incrociato la vicenda, e in un libro “I paesi delle ombre” ha sistemato e reso organiche ricerche fatte sul campo in quasi due decenni. Il “passaggio cilentano” di Majorana era la tesi centrale del nostro narrazione al tempo accolta con scetticismo da alcuni “majoranologi” come da chi contava a Perdifumo (amministratori comunali) che mai vollero valorizzare la circostanza. Ora, grazie a Roncoroni, e al valore di una ricerca sul campo con testimoni ora scomparsi, ci si prende – ma lo dico con amarezza – una rivincita. I fratelli di Ettore, lo scienziato scomparso, nel 1938 vennero nel Cilento perché qualcuno allora segnalò che c’era un uomo in fuga e che per due, tre mesi visse in una casa vicina al convento di S. Nazario cibandosi dei prodotti che gli fornivano alcuni pastori di Perdifumo. Alcuni, seppur anziani, li intervistai e fotografai. Lo pubblico, e Stefano Roncoroni, dopo aver letto, trova in casa le tracce di quella spedizione. Mi cerca e due estati fa a Perdifumo con me – sempre aiutato dal paziente ciclocronista locale Giovanni Farzati – un collega che, meno male per lui, passa più tempo a pedalare che a ricercare tasti per le parole da comporre da una tastiera del computer – ha ripercorso tutte le figure (i pastori, ecc.) che in questi ultimi decenni hanno rivelato di averlo allora visto. Tutto da rifare, come diceva un famoso ciclista. Ettore Majorana è stato ritrovato cadavere. Inutile continuare a cercare tracce dei suoi passaggi in Germania o in Argentina. Inutile scomodare le sue presunte simpatie per il regime nazista. E si rassegnino coloro che hanno creduto di riconoscere il geniale fisico siciliano nel senza tetto di Mazara del Vallo o nel taciturno professore di Buenos Aires. Né ci fu il suicidio, un tuffo in mare dalla nave postale che lo riportava in continente da Palermo, ipotesi che indusse la polizia a perlustrare il Golfo di Napoli alla ricerca del cadavere. Tutto da rifare. Ma è da riscrivere anche la versione del ritiro in convento avanzata da Leonardo Sciascia né “La scomparsa di Majorana”. Qual è la novità odierna? Che a scrivere ora è un parente di Ettore. Stefano Roncoroni, 73 anni, una lunga carriera di critico cinematografico e regista televisivo alle spalle, dal 1962 ha avuto accesso ai documenti familiari relativi alla scomparsa di Ettore e alle testimonianze dirette dei parenti che parteciparono alle ricerche. Il segreto sulla morte dello scienziato fu mantenuto così a lungo sia per il buon nome della famiglia che per non dare il colpo più duro al cuore della madre, Dora Corso. Ci aiuti a capire la sua posizione nel complesso albero genealogico dei Majorana. «Mia madre ed Ettore erano cugini di primo grado. Per questo mio padre collaborò alle ricerche». Roncoroni, cominciamo dalla fine. Ettore Majorana fu ritrovato? «Sì, intorno al marzo del 1939. Circa un anno dopo la scomparsa. In Calabria, dove forse era arrivato proseguendo dal Cilento ». Chi lo ritrovò? «Suo fratello maggiore Salvatore. Ma ebbe un ruolo fondamentale anche mio padre, Fausto Roncoroni». Lei come ha saputo del ritrovamento? «Fu mio padre a dirmelo a metà degli anni Sessanta. Mi raccontò di essere stato uno degli artefici insieme a Salvatore. E Salvatore confermò. Un’altra conferma mi arrivò da Angelo Majorana, anche lui cugino di primo grado di Ettore». Come e dove fu ritrovato? «Nessuno di loro volle dirmi di più. Mio padre aveva promesso ai Majorana che non ne avrebbe parlato con nessuno. E all’epoca la parola data veniva rispettata, tanto che anche con me non scese nei dettagli. Né lo fecero mai gli altri membri della famiglia. C’è però una traccia di cui parlo nel libro: mio nonno materno Oliviero Savini Nicci annota nel suo diario di un improvviso viaggio in macchina nell’ottobre del 1938 di mio padre e Salvatore fino a un vallone vicino Catanzaro dove è stata segnalata la presenza di Ettore. Se già non è agevole oggi, si può immaginare quanto fosse complicato andare e tornare dalla Calabria sulle strade italiane del 1938. Dovevano avere un buon motivo per mettersi in cammino, anche se nelle carte di mio nonno quel viaggio non è definito risolutivo. Riepiloghiamo: Ettore scompare il 25 marzo del 1938 mentre da Palermo torna verso Napoli dove lo attende una cattedra universitaria. Tutta l’Italia che conta, polizia, Vaticano, mondo accademico, si mette sulle sue tracce. Invece a trovarlo sono i familiari più stretti circa un anno dopo. Poi che succede? «Ettore è irrevocabile nella sua decisione di sparire. Chi lo trova non riesce a convincerlo a tornare sui suoi passi. Credo che l’incontro sia avvenuto proprio a Perdifumo, nella primavera del 1938. I Majorana ne prendono atto. E da quel momento fermano o depistano le indagini. Loro però non si arrendono se a ottobre andranno di nuovo a incontrarlo in Calabria». Ma questo non esclude le altre teorie sulla fuga di Majorana all’estero, in Germania o in Argentina. «E invece le esclude. Perché sono convinto che Ettore sia morto nella tarda estate del 1939». Come fa a dirlo? «Lo prova la documentazione che espongo nel libro. Certo, non ci sono atti ufficiali di morte o tombe da esibire. Ma le carte parlano chiaro. Pochi giorni dopo la scomparsa di Ettore si mette in moto una macchina per le ricerche che in Italia non è mai stata allestita nemmeno per i peggiori criminali. I Majorana sono una famiglia potente e in ascesa: scienziati, professori universitari, politici, hanno entrature al ministero dell’Interno e in Vaticano. Chiedono e ottengono una mobilitazione senza precedenti. La polizia dirama bollettini di ricerca e avvisa i posti di frontiera. Il capo della polizia va di persona in un paesino del Salernitano – a Perdifumo – con tanto di unità cinofile per fare un controllo. La Santa Sede setaccia tramite i suoi ordini religiosi i monasteri per sapere se Ettore ha trovato rifugio lì. Indaga anche il ministero per l’Educazione nazionale: la cattedra di Napoli è vacante e bisogna prendere una decisione. Poi, prima dell’estate del 1939, accade qualcosa che ferma tutto questo». Cioè la macchina delle ricerche si blocca? «Sì. La cattedra di Napoli viene riassegnata senza che la famiglia protesti. La polizia smette di diramare bollettini su Ettore Majorana e di cercarlo ai posti di frontiera. Dalla Segreteria di Stato del Vaticano parte una lettera indirizzata alla famiglia in cui, con parole consolatorie, si spiega che “non vi è più alcuna ragione per le ricerche”».Ma questo non necessariamente significa che Ettore sia morto. «C’è un altro documento inequivocabile. Nel settembre del 1939 il gesuita padre Caselli scrive a Salvatore. Gli comunica di accettare la donazione che la famiglia Majorana fa per istituire una borsa di studio da intitolare all’estinto Ettore. Se un gesuita nel ’39 usa il termine estinto vuol dire che non ci sono dubbi sulla sorte di Ettore: è morto entro il settembre 1939. E questo toglie di mezzo anche l’ipotesi del suicidio. Non si dedica una borsa di studio religiosa a un suicida». Perché i Maiorana hanno scelto il silenzio? «Fu una decisione di Giuseppe, zio di Ettore e indiscusso capofamiglia all’epoca dei fatti. Prima di tutto per la madre, Dora. Pochi anni prima i Majorana erano stati coinvolti in un caso di cronaca nera, un infanticidio. Una macchia intollerabile per l’onore di una famiglia che il fascismo stava celebrando tra i grandi di Sicilia e che annoverava già senatori, professori universitari e presidi di facoltà. Quando il giovante talento scompare nel nulla, nonostante la brillante carriera che si apre di fronte a lui, per Giuseppe esplode un nuovo scandalo che può compromettere definitivamente il buon nome e le ambizioni di famiglia. Sceglie dunque di far calare il silenzio sulla vicenda e lo fa con un documento che detta a tutti i parenti la verità ufficiale dei Majorana. Nel mio libro parto da quel documento finora inedito, per dimostrare come invece siano andate le cose nella realtà». Ma se lei era al corrente della “verità” fin dagli anni Sessanta, perché la racconta solo ora? «Mio padre, Salvatore il fratello di Ettore, mio nonno Oliviero Savini Nicci erano uomini di un’altra epoca. Avevano dato la loro parola al capofamiglia Giuseppe Majorana che non sarebbe trapelato nulla. Finché sono stati in vita io ho rispettato il loro patto. Poi però ho iniziato a fare ricerche per documentare ciò che mi avevano raccontato».