“Abbiamo un solo nemico: il sistema capitalistico.” Non la manda a dire e non fa sconti al nostro tempo la musica di SOLO, ecclettico artista campano alle prese con il suo primo album da solista. Esce, in questi giorni, il suo ultimo singolo: “Propaganda in my eyes, again (you’re erased)” -un’invettiva chiara, dalle sonorità punk, contro la società dei consumi.
È in fase di lancio il tuo ultimo brano solista, “Propaganda in my eyes, again (you’re erased)”. Come l’intero progetto, anche questo brano è un’amara critica sociale che identifica un nemico chiaro.
Il nemico è uno e uno soltanto: la società dei consumi. Questo mostro che ci tiene stretti nella sua morsa, una morsa camuffata da carezze, grazie alle sue tante promesse (e i suoi effettivi vantaggi, che sono però quasi sempre destinati ai pochi più fortunati). Facendoci vivere un sogno ad occhi aperti, ci si distrae dalle brutture che tutto questo sistema necessariamente si porta dietro: sfruttamento della forza-lavoro, iniquità fra ricchi e poveri, classismo, sfruttamento delle risorse naturali, consequenziale inquinamento, spreco di risorse materiali (produciamo più cibo di quanto ne consumiamo, e il surplus non viene certo redistribuito e donato a chi non può nemmeno permettersi un pasto al giorno).
Il tutto, con il sorriso suadente di un testimonial pubblicitario, che ci ammalia, ma che dentro è marcio e corrotto: è l’espressione massima dell’ipocrisia. E questo atteggiamento si ripercuote su tutti gli aspetti della società: predichiamo una cosa (vedi tutte le “campagne” pseudo-progressiste) ma facciamo l’esatto contrario di quanto ci poniamo come obbiettivo, addirittura andando a peggiorare la situazione, perché ci interessa la facciata, non le ripercussioni che il nostro agire possono avere sul mondo che ci circonda. Il movimento punk, sulla scia dei Sex Pistols, come provocazione utilizzava lo slogan “No future”: il capitalismo lo ha fatto proprio, nelle sue modalità distruttive che non pensano al futuro, ma al solo guadagno del momento, hic et nunc.
Parli di una ferita aperta da secoli, denunciata spesso, tanto da risultare oramai scontata, sebbene non guarita. Credi ci sia un passaggio aperto, in questo nuovo secolo, che possa portarci oltre o che la musica sia uno strumento in grado di farlo?
La musica, l’arte, non hanno potuto nulla in periodi storici in cui contavano; figuriamoci oggi, che è tutto usa-e-getta, tutto intrattenimento di bassa lega. Naturalmente, mi riferisco al mainstream, o a come anche prodotti “di rottura” (prendi Banksy) vengano fagocitati da un sistema non più rivolto a chi si interessa di arte per cultura, ma per status di classe. Siamo tornati (e questo, sono convinto, è il progetto delle elite) indietro di 200 anni, forse anche di più, quando l’arte colta era retaggio dei soli ricchi: tutte le battaglie per cui il “popolino” si era riuscito a creare un posto degno nel mondo, un posto dove avrebbe potuto guardare in faccia il padrone (che fosse un aristocratico o un dirigente d’azienda), e non dal basso verso l’alto, cancellate con un soffio di vento, grazie al nuovo paradigma della nostra società: quella individualista, del self-made man, grande chimera che ci porta a patteggiare e a fare il tifo per i potenti, con la promessa-speranza di poter diventare come loro. Siamo portati a cercare il benessere (reale o fittizio che sia) personale, e non l’uguaglianza (che potrebbe portarci a stare tutti bene).
Per quanto riguarda la denuncia “scontata”, io non credo tanto che lo sia, scontata; perché se ne parla pure, magari, ma se ne parla sempre en passant, senza cognizione di causa, senza tener conto di tutte le sfaccettature che un tipo di approccio così complesso alla vita necessariamente porta con sé. Trovo sia problematico che questa analisi profonda non si presenti nei discorsi di chi giustifica il sistema capitalistico: noto che c’è una giustificazione di questo sistema quasi aprioristica, perché “su carta funziona”; ma la storia ci ha insegnato che dalla teoria alla pratica ci passano oceani interi; e il sistema capitalistico, quello postulato da Milton Friedman, è stato una delle frodi, se non la più grande frode, della storia dell’umanità. Invito tutti a leggere “Shock economy” di Naomi Klein, per maggiori dettagli. Comunque, per rispondere alla tua domanda, no: non penso ci sarà mai margine di miglioramento per l’umanità; siamo destinati all’autodistruzione.
Quest’ultimo brano segue in termini di tempo “Something (you don’t need)”. Si passa da una ballata dalle atmosfere melodiche e avvolgenti alle espressioni rabbiose e dichiaratamente grunge di “Propaganda in my eyes”, da un noi ad un io, come se la lotta che si combatte per un altro fosse, alla fine, una lotta interiore, una battaglia per salvare sé stessi. Il capitalismo è anche la cultura in cui sei nato. È possibile esserne del tutto liberi?
Il capitalismo è un mezzo e, come tale, non è strettamente negativo o strettamente positivo: è l’uso che se ne fa. Come per il social network, per fare un esempio che è all’ordine del giorno. Il problema è che il capitalismo è subentrato ad un sistema economico precedente “di forza”: è stato imposto dall’alto, non c’è stata una sua evoluzione naturale che riuscisse a farlo integrare ai socialismi che negli anni ’50/’60 stavano crescendo. E questo è accaduto per un motivo semplice: evidentemente, a qualcuno, a pochi, interessava che il capitalismo si sviluppasse nel modo in cui lo conosciamo oggi, e cioè come sistema economico che favorisce i pochi a discapito dei molti, il contrario di quanto si prefissava il socialismo. I primi esperimenti con il capitalismo, così come pensati da John Maynard Keynes, non erano di questo tipo: con l’arrivo di Milton Friedman, e gli “esperimenti” della scuola di Chicago in Sudamerica, ha preso piede il capitalismo come lo conosciamo oggi. E, attenzione, come dicevo ha preso piede in maniera coercitiva, addirittura appoggiando colpi di stato e dittature (tanto per citare un caso emblematico, ricordiamo il colpo di stato di Pinochet in Cile).
Quindi il capitalismo è un problema?
Non necessariamente, ma per come lo conosciamo oggi, decisamente si. Per rispondere alla domanda (faccio delle lunghe premesse, purtroppo o per fortuna), necessariamente si è influenzati dal contesto in cui si cresce; sono influenzato dal sistema economico così come dalla religione che ho vissuto, come tutti noi. La cosa che ci differenzia, l’un l’altro, è la “risposta” che si ha a questi stimoli: c’è chi ne risulta soggiogato, chi non si pone problemi, chi reagisce con rabbia e odio. Io, personalmente, cerco di interrogarmi su ciò che mi circonda e su come ciò mi influenza e influenza il mondo in cui vivo. Non è facile, però: per rispondere alla tua domanda dovrei prima parlarne durante qualche seduta di psicoanalisi dedicata all’argomento, perché le influenze che sviluppiamo sono così intime che non si parla più di “stato cosciente” ma di inconscio.
Come tuo alter, che volto ha SOLO?
SOLO non ha volto; SOLO ha, ad ogni uscita, un volto diverso; SOLO non esiste; oppure esiste ogni volta come nuova entità. Non mi piaceva l’idea di dover associare il mio viso a SOLO, un viso già conosciuto per altri progetti alquanto distanti da SOLO. Da qui, la decisione di “camuffare” il mio volto ad ogni uscita, cercando di essere in linea con quanto volevo esprimere con la canzone. Così, per “Don’t shoot the piano player (it’s all in your head)” mi sono truccato da Cesare, personaggio del film “Das Cabinet des Dr. Caligari”; per “Something (you don’t need)” ho creato un collage sul mio volto, utilizzando occhi e bocca di altre persone; per “Propaganda in my eyes, again (you’re erased)” ho cancellato il volto, come fosse stato graffiato via da una foto con uno spillo.
Tra grunge, punk, rock alternativo, elettronica e psichedelia, entrare in tanti generi diversi è come…? continua la frase
In realtà non saprei darti una risposta. Nel senso, io ascolto un sacco di musica; necessariamente mi sento ispirato, di volta in volta, da un genere diverso. E quindi tendo a scrivere in maniera diversa. Non c’è un progetto dietro, non scrivo quasi mai “a tavolino”: le canzoni mi escono da sole, “per caso”. Tra l’altro, sono sempre stato affascinato dagli album variegati, come il “White album” dei Beatles. Quindi sono molto contento di riuscire a non rimanere recluso in un solo genere, e poter spaziare. Forse, entrare in tanti generi diversi è come… entrare in contatto con tante sfaccettature di sé, nel giro di pochi minuti.
Prima la musica o i testi?
Musica, assolutamente. Chi fa musica e predica che i testi sono più importanti dovrebbe dedicarsi alla scrittura di libri e non rompere i coglioni a chi cerca di fare musica seriamente. Quello che, soprattutto in Italia, la gente non capisce è che la musica è già un linguaggio a sé stante: siamo abituati a percepire solo quello lessicale come linguaggio, ma la musica ha determinate regole, come la grammatica, che possono tranquillamente soppiantare le parole (vedi la musica strumentale). Questo concetto viene sottolineato, ad esempio, in “Close Encounters of the Third Kind”, di Spielberg, visto che viene scelto come linguaggio universale, per la comunicazione fra terrestri e alieni, proprio la musica. Il problema è che non siamo educati a comprendere quel linguaggio e, quindi, ci ancoriamo alle parole.
Quindi la musica è il tuo modo privilegiato di comunicare, di entrare in contatto con te stesso e con gli altri?
No: la musica comunica sensazioni, non concetti. Sono tipi di comunicazioni differenti e bisogna saper sfruttare al meglio entrambi. Anche perché io, poi, sono molto empirico e pragmatico, quindi quando devo spiegare qualcosa ho necessariamente bisogno delle parole.
Dammi una sensazione e/o emozione per ognuno dei brani già disponibili.
Ah, no: questo deve farlo il pubblico!
Le tue? Non vuoi svelarle?
No.
Perché SOLO e cosa cerchi, sperimentando, nella musica?
SOLO semplicemente perché sono solo, essendo un progetto solista. Ma mi piaceva anche il concetto per cui, in fondo, siamo tutti soli, nel senso che, per quanto possiamo provare a interfacciarci con qualcun altro, non riusciremo mai a farci capire del tutto; forse nemmeno da noi stessi. E quindi è un po’ come essere soli, anche con gli altri, perché si è sempre un po’ sconosciuti. Nella musica cerco qualcosa che mi stimoli, quindi qualcosa che non sia del tutto banale. Ma che sia, al contempo, melodico. Mi piace la sperimentazione, ma sempre quando applicata a un contesto più pop, anche nazional-popolare, se vogliamo.
Ci trovi radici? La musica che hai ascoltato da ragazzo ad esempio. Qualcosa che ti riporta a te, a casa?
Il concetto di “radici” ho sempre cercato di eradicarlo, e quello di “ritrovare la via di casa”, in “Something (you don’t need)”, l’ho ribaltato cantando “We’d better lose our way to home”. Il senso di appartenenza andrebbe smantellato, sia per poter essere più liberi personalmente, non creando legami che in qualche modo ti condizionano, sia per evitare che possano nascere campanilismi che sfociano, poi, spesso e volentieri in xenofobia.
La prima canzone che ricordi di aver amato?
Di sicuro qualche canzone dei cartoni animati. Però ho un ricordo ben nitido di quanto mi piacesse, da bambino, “Bufalo Bill”, di De Gregori.
Cosa chiedi al tuo pubblico?
Un ascolto attento, senza pregiudizi; e apertura mentale, verso ogni genere musicale.
E allora, a mente aperta, ascoltiamo SOLO: https://open.spotify.com/album/0SW9vBiAmbuS4yEP8hpfcV
Grazie!