Il cimitero di Monteforte Cilento è aperto ai venti con i contrafforti dei monti a far da quinta. I morti vegliano le povere campagne da cui trassero, a sudori, il pane stento. La strada procede a tornanti ariosi balconate spalancate sui declivi a scivolo di vallata. Ci sono stato di recente. C’era il fasto dei colori sgargianti dei giorni di festa delle campagne del Cilento interno in una mattinata di maggio. Il rosso intenso dei papaveri gareggiava con il viola cardinalizio dei cardi e macchie di ginestre rovesciavano colate di giallo-oro agli argini di strade e sui declivi delle colline incolte; e ingioiellavano montagne rigogliose di vegetazione, pigmentandone il verde intenso. La macchina arrancava solitaria per la provinciale sconnessa ed avvallata dall’incuria e turbava il pascolo sereno di una capra che dava voce alla protesta del campanaccio, il cui suono ingigantito dall’eco andava a spegnersi nella vallata. E una vecchia con il suo carico di sulla fiorita, curva sotto il peso degli anni e dell’artrite, guarda incuriosita ed accennava ad un timido saluto con un sorriso pudico a mezza bocca sdentata. Che tenerezza!
Ad una svolta Capizzo che, nel grumo di case a corona di Chiesa Madre, testimonia di laure basiliane. Il campanile unico nella massiccia struttura da fortilizio e la Chiesa di San Fortunato mi accendevano memoria di anni lontani, quando un parroco colto e pio, don Telemaco, mi riecheggiava nel nome freschi studi di poemi omerici e mi introduceva con sapienza e pazienza alla conoscenza ragionata del patrimonio artistico della parrocchiale: tele di grande valore (ahimè in seguito trafugate!) e pregevoli affreschi sulle volte e nelle cappelle laterali. E mi parlava di processioni penitenziali e di acque lustrali, che, ieri come oggi, si snodavano e si snodano per le mulattiere ombrose di montagna a conquista di panorami da delirio e testimonianze di fede nella materializzazione degli ex voto tra fiammelle di candele, trepide lucciole zigzaganti e gloria di campane a distesa che si rincorrevano, e si rincorrono, tra valle e monte: San Mauro protettore veglia di lassù tra gente e campagne, immobile nella nicchia con la pesante statua di malta, mattoni e gesso policromo, benedicente.
Sono nel territorio di Magliano, che a qualche chilometro di distanza si stende pigro a margine di strada o si arrampica ardito a conquista di monte fino alla cappella rupestre di Santa Lucia, a ridosso della Montagna Rossa, meta di pellegrinaggi di fede consumati all’alba per arditi percorsi di campagna. Di Magliano ce ne sono due, il Vetere quaggiù, a dominio dell’Alto Alento, il Nuovo lassù, aperto all’anfiteatro ubertoso della Valle del Calore e quasi a precipizio sulle gole del fiume, verde ed incontaminato regno della lontra fin laggiù all’Oasi di Remolino. che rifrange l’argento della cascata alla rupe orrida e bellissima di Felitto. Magliano fu stato autonomo ed evoca le battaglie dei Goti e l’inespugnabile passo della “Preta Perciata” per il difficile accesso dal territorio dell’Alento a quello del Calore, e di là, attraverso la Sella del Corticato, al Vallo del Diano e fino a Grumentum nella Valle dell’Agri: percorso che di certo percorsero i Velini e Pestani per comunicare, via terra, con Sibari, animando traffici e commerci dal Tirreno allo Ionio.
Dalle pagine di storia fuoriescono conti e baroni a popolare residenze di pregio e manieri turriti; e per i vicoli sciama l’esercito senza nome di contadini e pastori alle prese con la quotidiana fatica del vivere. E, a prestare orecchio alla brezza leggera che alita sui fiori spontanei sbocciati per incanto sui muri della vecchia chiesa, riecheggiano le gesta di Menechiello, brigante spietato con i potenti e generoso e protettivo con i deboli, che, nativo di Gorga, esercitò dominio di vita e di morte su di un bel pezzo di territorio cilentano. Tra gli alberi già spiumati nei fiori, che promettono delizie di frutti di prossima maturazione, si leva il canto di Pasquale Lombardi, medico instancabile e generoso, poeta di stampo carducciano, intriso spesso di retorica, ma non privo di tensione ideale e commozione emotiva. E i versi roteano nel cielo della primavera odorosa e s’insinuano nel suo palazzo gentilizio, acquisito da poco al patrimonio pubblico e destinato a diventare, si spera, contenitore di attività culturali. Sfreccia nel cielo azzurro un reattore per rotte lontane con la sua scia lattiginosa che lenta svapora. E, per incanto si materializza la figura di Filippo Matonti, pilota coraggioso, socialista idealista, nato da queste parti e morto in Francia tra la considerazione dei democratici di mezza Europa, primo fra tutti un intellettuale del livello di Abdrè Malnreaux, che lo volle in una squadra di generosi militanti contro franchismo e fascismo. E portò alto il nome del Cilento nel mondo. A quanto io ne sappia, il suo paese natale non gli ha dedicato nemmeno una lapide. Proseguo il mio viaggio verso l’interno con la macchina che arranca alla conquista di Stio e mi lascio alle spalle Magliano, che minaccia voli arditi dal dirupo di una falesia, che, bellissima, si accende d’ocra al sole del tramonto.
Sono nel cuore vede del Parco del Cilento ed uno stormo garrulo di rondini ubriache di luce e di voli mi accende entusiasmo d’amore per la mia terra d’origine e mi figuro scenari prossimi venturi di sviluppo sulla base delle potenzialità inespresse: storia, tradizioni folclori che, valorizzazione dei centri storici, recupero dell’architettura rurale, riscoperta dei vecchi mestieri. Esaltazione dei vecchi sapori e, soprattutto utilizzo intelligente della risorsa ambiente nella gamma sconfinata delle opportunità di lavoro, dall’agricoltura ecocompatibile e biologica alle varie forme di ecoturismo.