Massimo Sgroi
Esistono due visioni contrapposte per il mondo contemporaneo: la prima asserisce che il mondo intorno a noi non esista davvero ma che tutto è dannatamente ed incredibilmente artificiale. E’ il sogno dell’immaginario post modern, laddove la realtà stessa sparisce, come afferma Jean Baudrillard, sotto un eccesso di realtà (in genere artificiale).
L’altra, vagamente retrò, che dice che, nonostante tutto, i sogni restano sogni ed il reale, nella sua accezione più naturale, resta inseparabile dall’anima del mondo. Paradossalmente i secondi sono più sognatori e visionari dei primi, ancorati, come sono, ad una cultura millenaria che resta ancora l’assioma centrale della nostra esistenza. Ciò che sembra un problema filosofico altro non è che la contraddizione che vive ogni essere umano, in particolare del mondo occidentale, tutte le mattine al risveglio e tutte le sere allorché il tramonto ed i suoi cromatismi cangianti riempiono ancora i nostri occhi di malinconia. Ciò che distingue un artista da un altro è proprio la scelta, a volte ponderata, altre inconsapevole, della collocazione rispetto alla linea dell’orizzonte della visione. E se tanti scelgono l’artificiale e la sua deriva comunicativa come estetica del successo, altri restano ancorati ad una percezione che non può prescindere da una memoria dura a sparire.
Per questi ultimi resta una necessità formale di rappresentare l’essenza vera del reale attraverso una sintesi formale che ne rappresenti l’imprinting nella mente e nell’anima, specialmente nel rapporto diretto con l’opera stessa. Come diceva Jim Morrison: l’anima di una persona è nascosta nel suo sguardo; in questo caso l’anima di Emiliano Aiello è nascosta nei suoi quadri e sebbene abbiamo paura di svelare la nostra vera, intima essenza, nel caso dell’artista la verità resta imprescindibile dalla sua sintesi: la sua opera. Per Aiello il suo lavoro vive sulla linea che separa la metafisica del colore e l’essenza stessa dello sguardo della natura; come direbbe l’Ariosto: ciò che si vede è. Bisogna stabilire la differenza sostanziale che esiste fra la rappresentazione, sebbene spostata su un differente livello della percezione, e la simulazione del mondo. L’artista napoletano rinnega l’autismo postmodern per ristabilire la verità del regno del possibile che appartiene più ai sentimenti che non alla computazione dei rapporti non lineari della vita.
Paradossalmente, proprio nel recupero della verità della concettualità dell’astrattismo, Emiliano Aiello dipinge la relazione fra i sentimenti invece di perdersi nelle splendenti linee elettroniche figlie di una deriva di un cyborg impazzito. E, se è vero che la funzione di dominio della moderna civiltà computerizzata è figlia di una simulazione di un modello computerizzato, è altrettanto vero che la variabile impazzita dell’arte, per lo meno nella sua vera natura che sfugge alle logiche di mercato, diventa punto di assoluta singolarità nella geometria del controllo del terzo millennio. Allorché le linee cromatiche di un dipinto di Emiliano Aiello sono figlie di un sentimento primordiale esse diventano incontrollabili, come isole di pura libertà nei confronti dell’oggettivizzazione del modello precostituito dell’esistenza. L’astrattismo dei cromatismo mediterranei presuppone, oltre alla sovrapposizione dei sentimenti, la decostruzione della forma naturale proprio nel suo essere vagamente accennata; tutti i patterns altro non sono che una dissoluzione nell’alterità dei mondi della percezione profonda di ciò che è la visione della sostanza del mondo. E’ guardare con gli occhi dell’anima piuttosto che riprodurre meccanicamente ciò che i nostri occhi vedono.
Uno degli errori fondamentali del modernismo a tutti i costi, infatti, prevede l’azzeramento della memoria storica; essa, al contrario è necessaria poiché, come disse un filosofo americano “conoscere la storia serve a sapere cosa fare quando essa si ripresenterà”. I grandi monumenti che attraversano il nostro territorio (e l’Italia intera) sono molto più necessari di quanto si possa immaginare; al di là del possibile è una delle basi culturali, storiche e filosofiche, su cui costruire un progetto che, senza assurde derive luddiste, possa coniugare la memoria ed il suo stesso tradimento. Emiliano Aiello è un artista che con questa memoria è abituato a farci i conti; ha compreso la lezione del grande Fedor Dostoevskij “solo la visione della bellezza può salvare il mondo”. E questa bellezza, quella che nasce dal bene, oltre che dalla pura estetica, deriva del filo storico che ci ha portati ad essere quello che siamo.
In questo senso le pitture di Aiello ricordano il concetto di democrazia diretta del giovane filosofo croato, Srecko Horvat piuttosto che la democrazia corrotta dalla partitocrazia del mondo occidentale laddove nel dipingere opere come Holy Childhood, I will save you, Rummage e Colostrum mette in discussione un sistema, quello dell’arte, mai così omologato ed appiattito sulle volontà di pochi detentori del potere del mercato sostituendo le immagini comunicative di successo con relazioni ed interconnessioni con la democrazia diretta della vita. Come per Socrate questo tipo di artisti sente quasi l’obbligo morale di essere un detonatore dell’accadere; la visione dell’opera prescinde, allora, dalla forma stessa per essere, nella sua disarmante semplicità, motivo di messa in discussione delle certezze assolute che pervadono ed invadono il mondo della ricerca estetica contemporanea. L’arte riassume, allora, la sua valenza originaria: quella creativa, quella che, come dice Protagora: ”Usando l’arte (l’uomo) articolò ben presto la voce in parole e inventò case, vesti, calzari, giacigli ed il nutrimento che ci dà la terra”. Ovvero, come sostiene il filosofo Lucio Saviani: grazie alle tante arti la carenza muta sempre in risorsa.E, nell’usare il mezzo rituale della pittura (per lo meno nella sua accezione primordiale) egli diventa strumento fra l’umano ed il divino, sospeso fra carne e spirito, corpo e mente; è l’impercettibile che lascia l’impronta sull’intangibile. Proprio nel recuperare questo gesto istintuale l’artista, allora, trasforma la sua opera in altro da sé, in quella dimensione di alterità che, prima ancora che alle linee entropiche della rete, appartiene alla dimensione della mutazione dell’umano in arte.
Emiliano Aiello rilegge, in perfetta aderenza con la concezione astratta contemporanea, proprio le nuove forme della percezione attraverso le campiture di colore o la mutazione delle forme spinte all’estremo verso l’appiattimento dell’immagine mediatica. E’ la ricerca di una metafisica del colore che, filtrata attraverso una lettura intima e personale, viene restituita al lettore dell’opera come landscape dell’anima universale. Di per se, infatti, il concetto di pittura astratta appartiene ai territori dei mondi inconoscibili platonici più che alle contingenze temporali e, con il modificarsi delle generazioni artistiche, diviene esattamente aderente alla trasformazione del pensiero profondo dell’umanità. Ciò che l’artista percepisce, attraverso la lettura emozionale del reale, è sempre la sintesi di un processo esperienziale che ha portato verso una sua nuova forma antropologica. In quanto uomo del terzo millennio Emiliano Aiello esprime la modificazione del suo sentire riferendosi a questa realtà, a questa esistenza usando come chiave di accesso la più universale possibile: il sentimento. In questo suo modo di approcciarsi con il gesto pittorico l’artista napoletano spinge fino ai limiti dell’astrazione se non ai veri e propri paesaggi dello spirito quello che la sua visionarietà di artista gli fa percepire; è una vera e proprio condivisione fra il suo essere e la tela stessa laddove il transfert va oltre il gesto meccanico per divenire iconografia virtuale ed immaginifica che si materializza sulla superficie dell’opera. Nella sua tendenza ad usare colori quasi primari o, comunque, netti, chiari, decisi, Aiello disegna sulla lavagna stratta dell’immaginario le forme emozionali che, partendo dalla sua percezione istintuale, finiscono per diventare quasi delle idee assiomatiche ed assolute; è un modo di fare filosofia attraverso l’istinto e la sua materializzazione in arte visuale.
Ad Emiliano Aiello è ben chiara una cosa, nel suo essere uomo della Magna Grecia: ciò che si ferma è destinato a cadere in polvere. Culture millenarie, imperi apparentemente destinati all’eternità si sgretolano sotto il peso della loro immobilità. Quello che distingue l’area del Mediterraneo da qualsiasi altro luogo della terra è la possibilità costante di operare un continuo scambio/ricambio tra i vari segmenti, tra i vari popoli che su di esso si affacciano. La cultura, così come il mare, è elemento fluido che consente uno scambio di informazioni senza soluzione di continuità, piattaforma interrelazionale che rende i popoli mediterranei tanto diversi eppure affini. E, proprio guardando questo mare, introiettandolo per sempre nella sua forma mentale, che l’artista riesce ad usare esattamente quei cromatismi poiché, al di là di ogni possibile interpretazione, quello che egli dipinge racconta, racconta quella storia e tutto ciò che ci ha portato ad essere quello che noi siamo, ora e qui. Perché altri uomini, altri mari, altre culture ed altre storie producono, inevitabilmente cose diverse. Non chiedeteci di realizzare un Balloon Dog, non ci appartiene e non ci apparterrà mai; piuttosto possiamo ridisegnare, come sensazione e ricordo di un essere vivente, mutante del post 2000 la nave che portò Ulisse a perdersi nel viaggio definitivo. Questa è la nostra storia, questo è ciò che davvero ci appartiene; e sia nel mito o negli splendenti mondi elettronici di una realtà virtuale siamo ancora pronti a prendere quei remi per fare da ali al folle volo.