Abbandonare la strada sicura e pianeggiante di San Severino per addentrarsi tra dolci colline che man mano si fanno più rocciose, fino a scorgere lassù, tra terra e cielo, arroccato su uno sperone un luogo senza tempo, sospeso quasi in maniera inspiegabile tra terra e cielo. Quando si arriva ad Elcito, minuscola frazione di San Severino, non si può che avere una sensazione di spaesamento e l’impressione di essere in un posto fuori dal mondo. Ma tutto questo non disorienta, anzi. Il sole cocente, l’aria sul viso, il verde e il paesaggio che si staglia a perdita d’occhio fanno sentire non a casa ma in una ancora più giusta dimensione naturale per l’uomo. Un parcheggio per poche auto e un rifugio con prodotti tipici accolgono i turisti che arrivano fin quassù a cercare quella che è ormai conosciuta come “Tibet delle Marche”, la sua spiritualità e la sua magia. Basta camminare ancora qualche centinaio di passi per raggiungere la minuscola piazza dove forse, probabilmente, si ergeva la torre del centro che fino a poco più di 50 anni fa, gli anziani ancora ricordavano. Qui vivono 7 anime, a volte 8 ma anche 5 o 6 o nessuna in certi periodi dell’anno. Quei pochi elcitani, però, la abitano con orgoglio, con fierezza, con cura e generosità. «Abbiamo risistemato le nostre case, non con i fondi del sisma ma con i nostri soldi perché ci teniamo, come ci tenevano le nostre famiglie» precisano. Per i visitatori c’è un bagno, pulito, dotato di ogni comfort, un qualcosa di più dell’accoglienza turistica. E’ un po’ come dire “Questa è anche casa tua, curala, come facciamo noi”. «Per noi a Elcito – continuano gli abitanti – la casa sono tutte le case e la via che le collega è il corridoio» Un microborgo in cui ogni muro racconta secoli di storia. «Elcito nasce come presidio di difesa dell’abbazia di Valfucina, qui all’epoca vivevano persino monaci siriani. L’abbazia aveva una ricca biblioteca e possedimenti dal San Vicino fino alla valle del Musone. Poi il monachesimo si è spostato verso valle ed Elcito è rimasta qui». Una fortezza e un rifugio di streghe diventata poi comunità. E proprio della comunità, autonoma e solida, vissuta qui fino a una manciata di decenni fa, ci hanno parlato le ultime nate in questo borgo tra gli anni ’50 e ’60. «La nostra infanzia è stata bella, ci aiutavamo tutti, si viveva e si cresceva insieme». Certo, non sono mancate le difficoltà come quella delle scuole medie, diventate obbligatorie, che hanno costretto giovani elcitani ed elcitane a vivere anni in collegio e lontani dalla famiglia per frequentarle. E proprio quell’allontanamento è forse servito a rivelare quanto a Elcito ci fosse tutto l’essenziale per vivere bene, in armonia con se stessi, con gli altri e con la Madre Natura anche se non ci arrivavano i cioccolatini, né le scatole di detersivo, quelle grandi con il regalo, finché non arrivò negli anni Sessanta il primo venditore ambulante. Un’autonomia dicevamo, quella della comunità di Elcito, resa necessaria dalla distanza da tutto e da tutti e dalla difficoltà a percorrere strade tanto impervie, specie durante la stagione invernale quando la neve e i venti gelidi si accaniscono su questo sperone di montagna a più di 800 metri di altezza sul mare. E “residuo” di questa esigenza è la presenza del sindaco, non un primo cittadino eletto con i voti, né riconosciuto dalle istituzioni. Qui il sindaco è per acclamazione, è una carica a vita che si conquista per leadership naturale. Attualmente la “sindaca” è Giuliana Ilari, nata qui nel 1956. E’ lei l’erede designata a mantenere il luogo incorrotto e proteggere l’unione della comunità. E’ lei a raccontare che la vita qui era la stessa per tutti. Esiste ancora in queste vie il forno comunitario, quello che veniva acceso per cuocere il pane per tutti. Ci si sposava nella “spiaggia”, un solarium naturale e verde, sospeso quasi nel nulla, lasciato dai resti di quella che era stata la residenza dell’abate. E la pace, quella pace che oggi è da tutti tanto desiderata, ricercata e rincorsa. Non solo pace come tregua dai bombardamenti ma pace come sollievo, respiro e profonda serenità che neanche le “famose” streghe di Elcito riescono a turbare. «C’è una leggenda – racconta lo scrittore Matteo Parrini – legata alla Fonte dei Trocchi, noto ritrovo delle megere per cui un uomo si avvicinò alle donne che stavano usando l’acqua e si salvò solo perché aveva scarpe legate con lacci di cane, deterrente contro queste creature». Ora Elcito è a un bivio. Da una parte c’è l’esigenza di mantenere la sua armonia, i suoi tempi e la natura incontaminata (non è strano qui sentir bussare alla porta una mucca che vaga liberamente) e dall’altra quella di accogliere i tanti visitatori che si lasciano attrarre dal suo fascino. Un dualismo conciliabile, al centro di un dibattito caldo, che corre di bocca in bocca. Piero Micucci, residente saltuario da 45 anni, vede nella riscoperta di Elcito e della vicina faggeta di Canfaito un interesse eccessivo che rischia di corrompere. «Va regolarizzato questo flusso, oggi non abbiamo neanche più un luogo di culto e meditazione. Ci vorrebbe». Dall’altra parte c’è Roberta Cuomo, giovanissima titolare del punto ristoro il Cantuccio che qui ha deciso di investire la sua laurea e la sua vita, con il fidanzato. Il rifugio propone una accoglienza discreta ma invitante. Certo l’attività vive di clienti e di visitatori. Ma è poi così diversa la sua visione rispetto a quella del più tradizionalista degli abitanti? «Purtroppo i social – spiega – spesso confondono, vengono persone a cercare dettagli che magari non sono neanche qui. Bisogna venire a Elcito con l’idea di godere il momento con la testa e il cuore più che con il cellulare in mano». Se c’è qualcosa che unisce, tutti coloro che arrivano in questo angolo sperduto di mondo è la ferma convinzione che chi viene deve adattare se stesso ad Elcito, non viceversa.
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