Fino a qualche decennio fa i paesi erano “un problema”. Oggi, invece, sono “una risorsa”. A metà del secolo scorso, e per alcuni decenni, vivemmo la stagione dell’abbandono e dello sradicamento.
Da un po’ di anni a questa parte c’è una inversione di tendenza. Tornano gli eredi di prima e seconda generazione. Le campagne rifioriscono con la ripresa delle coltivazioni e verdeggiano gli ulivi, i vigneti rigermogliano e si gonfiano di umori alla stagione giusta, i rovi cedono il campo alle biade fiorenti e agli orti irrigati dalle acque dei fiumi/torrenti e dei pozzi. Si riscopre l’agricoltura con il suo carico di belle tradizioni secolari. Insomma, il paese non è più un problema, ma una “risorsa”: piazze, slarghi e vicoli si rianimano. Ritorna la festa dei bimbi vocianti. Le case riattate ridono allo scialo di fiori a terrazzi, balconi e finestre. Il paese rinasce nella coralità delle feste religiose, nella gioia contagiosa dei matrimoni come nel dolore dei funerali. Si riscopre e si esalta l’umanità calda della piccola comunità, con lo straordinario patrimonio dei suoi valori, nella consapevolezza che qui non si è mai soli, nella gioia come nel dolore, nella festa come nella malattia e nella morte.
Proprio così: il paese è una risorsa, perché è sentinella vigile a tutela dell’ambiente, è baluardo della democrazia partecipativa nelle passioni delle campagne elettorali, nel contatto/confronto diretto con gli Amministratori Pubblici. La tecnologia moderna e questa nostra società cablata hanno ridotto ed annullato le distanze e puoi tranquillamente percorrere le strade nuove ed innovative del telelavoro e della telemedicina anche nel chiuso di una stanza di paese, se dotata di un computer in grado di collegarsi in tempo reale, con il mondo intero. Sono queste le straordinarie opportunità dei nostri paesi, che non impongono più rinunzie, ma in compenso regalano calda simpatia di umanità nella cornice di un ambiente sano, in cui acqua, aria, profumi ancestrali, cibi non avvelenati dai pesticidi, non sono una eccezione ma la norma. È questa la nostra straordinaria ricchezza, è questa la nostra arma vincente. È per questo che tornano i figli lontani. È per questo che ci riscoprono in tanti in fuga dalle città invivibili per stress e smog, a conquista di silenzio, salute e relax tra i nostri monti e nel verde delle nostre campagne a pochi chilometri dal mare, che, nella nenia della risacca e negli schiaffi delle libecciate su arenili e scogli, racconta di miti e storia antica. Proprio per questo le piccole comunità vanno tutelate ed esaltate, nella loro intatta bellezza, nella semplicità pulita e ricca di caldi valori. E, per farlo, è opportuno, necessario ed indilazionabile INVESTIRE IN CULTURA, nell’accezione più ampia e prismatica del termine. Ne ha preso coscienza, finalmente!, anche la Politica, a livello nazionale. È, infatti, in dirittura di arrivo la legge in difesa e tutela dei borghi, che rischiavano la desertificazione per abbandono degli abitanti con la conseguenza di trovarsi a breve con piazze, vie, case e monumenti invasi dai rovi. In molti hanno lanciato l’allarme per il percolo di vedere cancellate pagine e pagine della nostra storia, quella dell’agricoltura sui petti di collina, sui cocuzzoli di montagna, come quella delle valli umbratili, con le vistose ferite dei torrenti aridi d’estate e limacciosi d’inverno, della pastorizia con gli armenti alla pastura brava tra la macchia rada o nei fossati lungo carrarecce poco frequentate. Una pagina di storia scritta nel e con il lavoro di sudori e stenti delle tante, troppe, giornate di fatica e le poche, anzi pochissime, di festa per Natale, Pasqua ed il Santo Patrono nella Chiesa Madre tra nenie di canti stonati e preghiere sussurrate con la benedizione consolatoria del parroco e la sua promessa di paradiso nell’omelia; quella scritta nella piazza tra ricordi del militare o l’accapigliarsi al tressette nel bar tra fumo di sigaro e odori di piscia trattenuta per gli uomini e gli “inciuci” del dopo messa all’angolo dei vicoli delle donne. E dal 2013, quando si era levata più alta e forte nei convegni numerosi e nei dibattiti accesi l’esigenza di non far morire tradizioni, si era accesa la speranza di rivitalizzare piazze, slarghi e vie e di vedere ripopolate case, piazza e chiesa, la legge aveva intrapreso un cammino istituzionale tra incertezze e percorsi accidentati.
Ora sta per tagliare il traguardo con un progetto di futuro. Ed una parte consistente dell’Italia povera ed emarginata comincia a sognare la vita nel piccolo borgo che fu degli avi; e si gonfia di entusiasmo per un avvenire di turismo tra ruderi riattati con terrazze, balconi e finestre allo scialo di fiori. E le speranze non sono del tutto infondate a leggere bene la legge, di cui trascrivo qui di seguito, parte degli articoli più significativi.
ART. 1 “La presente legge … ha lo scopo di promuovere e di sostenere lo sviluppo economico, sociale, ambientale e culturale dei piccoli comuni, di garantire l’equilibrio demografico del Paese, favorendo la residenza in tali comuni e contrastandone lo spopolamento, nonché di tutelarne e di valorizzarne il patrimonio naturale, rurale, storico-culturale e architettonico. La presente legge favorisce altresì l’adozione di misure in favore dei cittadini residenti nei piccoli comuni e delle attività produttive ivi insediate, con particolare riferimento al sistema dei servizi territoriali, in modo da incentivare e favorire anche l’afflusso turistico”.
È la prima volta che il nostro Parlamento dedica attenzione all’Italia più emarginata, ne esalta i valori e si ripromette di valorizzarne “… il patrimonio naturale, rurale, storico culturale ed architettonico”. E, leggendo la proposta di legge, il mio pensiero è volato ai paesi del mio Cilento dove sono ancora vive le tradizioni di un’agricoltura di sussistenza con le “passolare” per essiccare i “moscioni” e i forni delle povere case di campagna per rosolare le “spaccate”. Per i poveri cristi si stagliano ancora nei “latifondi” (?!) della nobiltà di censo e di casato i “casini” che erano residenza/vacanza per il periodo del raccolto/i (mietitura/trebbiatura, vendemmia, olive, castagne, ecc.). E fanno scattare memoria di nostalgia d’infanzia lontana gli attrezzi conservati nei “malazzeni” e quasi arrugginiti con l’avvento della meccanizzazione. Lo sesso dicasi per la pastorizia che vede i suoi santuari di mungitura, cagliatura e stagionatura dei formaggi negli “stazzi/recinti all’aperto o nel chiuso dei “crapa rizzi”. Per non parlare, poi, dell’artigianato e/o della proto industria della civiltà contadina: la lavorazione dell’argilla per embrici, “tiani” ziri, muscetore, mommole, caccavi, intrecciati, ferro battutto e l’arte del ricamo di mamme e nonne armate dei delicati arnesi del mestiere (ago, ditale, forbici). O la levità e la grazia della poesia dei ricordi per il lavoro femminile e la forza ed il sudore dei lavori maschili. Mi ricordo di questi ultimi ogni qualvolta mi imbatto in un manufatto cadente delle “carcare” e/o dei “catuozzi” dei carbonai e che ricordo fumanti ed individuabili a distanza con il filo di fumo nero nel verde della macchia. E c’è anche una memoria religiosa in santuari ed edicole votive di campagna che raccolsero preghiere e speranze per un’annata ricca.
Purtroppo però i dati dello spopolamento del Cilento interno sono diventati allarmanti negli ultimi tempi. Prevedono la desertificazione delle attività con effetti devastanti su ambiente e paesaggio. Il fenomeno è ritardato solo dalla sopravvivenza di una generazione, che, nonostante gli anni, dissoda e sarchia, pota e irrora, scruta il cielo e trema per piogge e grandinate violente, gelate improvvise e siccità prolungate e registra negli occhi tremuli il miracolo delle gemme a primavera, del grano che si fa pane, dell’uva che si gonfia e traluce a settembre, delle olive che s’ingravidano di umori solari in estate e brillano nelle iridescenze viola in autunno. Forse siamo alla vigilia della morte annunziata della poesia georgica cilentana con la naturale decimazione di potatori e contadini tutto fare, bonari dei Pan delle nostre campagne? Io, però, continuo a sostenere che quello dell’agricoltura è un mondo di grande potenzialità e mi piacerebbe se politica, imprenditoria e media puntassero a dare una “impronta culturale” anche a questo settore attraverso iniziative integrate.
Sarebbe un modo, non l’unico, ma certamente efficace, per motivare i giovani al ritorno ai campi.