Il sole è già alto e i due si dirigono verso la zona delle residenze di lusso. Hanno intenzione di visitare Giovanna, moglie di Cuza, procuratore di Erode; da lei possono avere notizie circa il processo svoltosi di fronte a Pilato. Arrivati alla residenza si rendono conto che nei pressi dell’ingresso c’è un distaccamento di romani. E’ troppo tardi per ritornare indietro, avrebbero suscitato sospetti; decidono, perciò, di proseguire come se nulla fosse. Bussano e chiedono di Giovanna. Due soldati li osservano, uno con voluta noncuranza, l’altro con manifesto disprezzo; a qualche metro di distanza intravedono anche un centurione. A Giovanni gli si gela il sangue. E’ il militare che ha sovrinteso alla crocifissione, probabilmente lo avrebbe riconosciuto. Cerca di mantenere la calma; nota che il romano non reagisce alla sua vista. Pensa di averla fatta franca. Non sa che il centurione ha ancora negli occhi il viso rigato di lacrime del giovane che sorregge una donna sulla cinquantina distrutta dal dolore.
Giovanna non si fa attendere; si precipita alla porta e fa entrare i due. Li conduce in disparte, preoccupata che la loro presenza possa significare nuove sciagure. E’ lei a prendere la parola per chiedere il motivo della visita.
Giovanni risponde: “Siamo qui per apprendere notizie circa l’interrogatorio di Gesù presso Pilato”.
“Quale fortunata coincidenza”, ribatte Giovanna. “Nel salone principale siede, mia ospite, la moglie di Pilato, accompagnata dalla servitù, compresa Ester, una nostra amica fidata che potrà rispondere ai vostri quesiti”.
Tommaso chiede: “Che ci fa qui la moglie del capo degli oppressori del popolo?”
Giovanna riferisce del ruolo svolto da Ester, di come abbia tentato d’influenzare la padrona invitandola ad intervenire presso il marito perché fosse clemente.
“Perché tanto interesse per il Maestro da parte di una romana?” Incalza Didimo.
Giovanna risponde riferendo di come ella avesse sentito parlare per la prima volta di Gesù quando si era recata a Cafarnao in compagnia del marito ed aveva avuto la ventura di sedere a tavola col centurione. Questi aveva raccontato che, nell’impossibilità di guarigione di un suo sottoposto e nutrendo totale sfiducia nei medici, si era rivolto al Nazareno per un estremo tentativo chiedendogli di guarirlo; cosa che era avvenuta, anche se il rabbi non era entrato in casa. Pilato, presente al racconto, era esploso in una cinica risata, incredulo verso questo tentativo di medicina a distanza, mentre la moglie si era raccolta in un silenzio pensieroso, colpita dalla disponibilità di Gesù ad entrare, se necessario, persino in casa di un infedele, rischiando l’impurità legale pur di curare un servo. Rassicurati dalla testimonianza di Giovanna, Tommaso e l’amico di viaggio chiedono d’incontrare Ester. La padrona di casa la introduce nella stanza dove i due attendono.
Giovanni rompe il ghiaccio: “Ester, mi trovavo nei pressi del sinedrio quando fu interrogato Gesù, invece non ho potuto seguire con la stessa attenzione il processo presieduto da Pilato. Ho visto i sinedriti consegnare il testo d’accusa basata, mi pare, sull’uso del titolo regale, che Gesù in verità non si è mai attribuito sgridandoci ogni volta che, anche solo per scherzo, fantasticavamo su quest’argomento.”
Ester inizia a raccontare: “Il procuratore, non conoscendo il Nazareno non poteva valutare con precisione le conseguenze di una condanna; per ridurre al minimo i rischi decise di ascoltare gli accusatori e interrogare l’imputato. Egli aveva appreso che all’alba nel consesso ebraico la discussione era caduta sul titolo di messia e il significato che il prigioniero gli aveva dato. A Pilato apparve subito evidente che l’insistenza sul titolo implicava l’intenzione di contestare a Gesù una rivendicazione religiosamente anomala con connessi risvolti politici”.
Ester ricorda che quel venerdì mattina erano programmati diversi procedimenti, oltre a quello contro Gesù e un gruppo di zeloti legati a Barabba. Il fatto aveva richiamato spettatori curiosi e partigiani degli accusati, situazione preoccupante in una città piena di pellegrini. Alla domanda di Pilato se fosse re, Ester riferisce letteralmente la risposta:
“Non mi pare che Gesù con quella battuta abbia voluto dire sì. Una tale confessione lo avrebbe trasformato in un ingenuo utopista, un sognatore fuori del mondo. Egli aveva accettato titoli come rabbi o profeta, mai quello di re. Il Nazareno avversava tutti i titoli umani, perché in quella circostanza avrebbe dovuto accettare quello di re e, di conseguenza, la morte per un gesto d’incosciente spavalderia?” Commenta Giovanni.
“In effetti, i suoi denigratori presentarono molti capi d’accusa, ecco perché Pilato lo sollecitò a prendere posizione. Ma a questo punto Gesù scelse di tacere”. Riprende Ester. “Dal suo silenzio e dalla stizzita caparbietà degli accusatori il procuratore comprese che il gioco stava diventando sporco. Si rese conto che il Nazareno non era una minaccia all’augusta maestà dell’imperatore; era consapevole che lo avevano consegnato alla giustizia romana per invidia, poiché il Sinedrio non ha la potestà di farlo giustiziare. Pilato aveva colto il tentativo strumentale di usarlo; perciò cominciò ad opporre resistenza mosso non da compassione o simpatia verso l’accusato, del quale gli interessava poco o nulla. Ad impensierirlo era la velata minaccia di rivolgersi all’imperatore. L’interrogatorio raggiunge così l’acme della tensione. In effetti, se liberava Gesù, come pare fosse disposto a fare, il procuratore rischia una denuncia a Roma i cui esiti sono sempre rischiosi; se cedeva agli accusatori pronunciando la condanna avrebbe fornito una palese dimostrazione di debolezza. Per uscire da questo circolo vizioso tentò di usare Erode Antipa come zattera di salvataggio”.
Il nome del re per il quale lavora il marito induce Giovanna a comunicare ciò di cui è a conoscenza: “Al sovrano era nota la fama del Nazareno e sperava di vederlo all’opera, che compisse qualcosa di prodigioso alla sua presenza. Tempestò Gesù di domande, ma il Maestro rimase muto, anche quando gli emissari dei sacerdoti ripeterono le accuse. I cortigiani per rallegrare il sovrano infastidito da quell’atteggiamento cominciarono a schernire Gesù. Un re non può vestire in modo trasandato e sciatto, deve indossare abiti adatti al rango e al lusso di un sovrano. Erano le loro provocazioni, ma Gesù continuò a tacere. Erode, che Gesù aveva apostrofato chiamandolo “volpe”, diede prova di astuzia, non si fece trascinare in una vicenda che scottava. Lo rimandò a Pilato come i cortigiani lo avevano conciato considerandolo un pazzo intriso di sottigliezze religiose, più un fanatico che un ribelle pericoloso per Roma”.
“Avevo saputo dell’arrivo di Gesù a palazzo”, continua Giovanna. “Quando la comitiva uscì, la seguii. Così ebbi il tempo di arrivare nei pressi del pretorio, dove m’intravide Ester. Mi venne incontro e decidemmo di continuare a seguire il processo. Così siamo divenute spettatrici di una scena veramente disgustosa”.
Ester accenna col capo e continua: “La situazione si è fatta difficile per Pilato. Le conseguenze del responso potevano ripercuotersi su di lui. Sembrò avverarsi l’avvertimento che la padrona gli aveva fatto:
In coro, con un timbro di voce simile a quello delle lamentazioni funebri, Giovanna ed Ester riferiscono ai due apostoli lo strazio riservato al Maestro. “Denudato e buttato a terra, è legato ad una colonna bassa in modo da offrire ai torturatori una parte del corpo facile da colpire. Come strumenti di supplizio alcuni impugnano fruste di cuoio con ossi aguzzi e pezzi di metallo. Dopo pochi colpi lembi di pelle volano nello spiazzo, mentre il sangue irrora il pavimento. I militari non vogliono perdere l’occasione per osannare, a loro modo, il sovrano dei giudei, al cui indirizzo rivolgono urla sguaiate e osservazioni mordaci ed oscene. Il Nazareno è privo d’insegne regali, ma un vecchio mantello militare rosso-porpora, una corona intrecciata con rami spinosi e sterpaglie, una canna come scettro costituiscono la migliore investitura per addobbare il loro trastullo. I militari della coorte lo omaggiano inginocchiandosi; gli rivolgono un beffardo “vale” e la presa in giro termina con colpi di bastone sulla corona, pugni, schiaffi, sputi, segno di profondo disprezzo, anche se, in realtà, il loro è soltanto impotente furore”.
Tommaso, alla ricerca di particolari per far quadrare la sua personalissima inchiesta, chiede il testo dell’iscrizione dell’accusa.
“A questo proposito – risponde Ester – ho sentito la mia padrona parlare di un alterco tra il marito e gli accusatori. Costoro insistevano sulla semplice scritta “Re” in modo da non coinvolgere se stessi nel farneticare di un profeta eretico; questa semplice parola avrebbe dato verosimiglianza alla condanna e conferito fondamento alla giustezza dell’auspicata morte di Gesù. Proprio su questo titolo si è incentrato il dibattimento; Pilato ha voluto integrarlo con l’aggiunta “dei giudei”, facendo irritare sommi sacerdoti e scribi. La loro reazione ha indotto il procuratore ad insistere, contento di arrecare in questo modo qualche umiliazione agli odiati giudei”.
Giovanni aggiunge: “La sentenza è stata proclamata attorno all’ora sesta. Gesù è stato condotto nel pretorio tra le sette e le otto del mattino: in cinque ore si è deciso il suo destino”.
Il riferimento temporale fa precipitare tutti nello sconforto; non si rendono conto che ormai il sole si avvia al tramonto. Tommaso e Giovanni ritengono conveniente e più sicuro uscire e ritornare al Getsemani, dove hanno dormito la notte precedente. Le ospiti di Giovanna si avviano verso la residenza di Pilato; appena imboccano la porta d’uscita vengono accompagnate dalla scorta, che si allontana con incedere marziale, mentre sull’acciottolato rimbomba il rumore dei loro calzari.