Volevo essere anch’io un veicolo di cultura da grande, come i miei professori, conquistare la nobiltà delle parole che attirano gli sguardi, accendono fili.
E invece mi sono ritrovata dietro le quinte della scuola, per più di quarant’anni.
Erano gli anni dei “decreti delegati” che cambiavano l’impianto delle scuole, e nelle assunzioni capitai anch’io. Eravamo un sacco di giovani con scrivanie zeppe di anagrafiche, schede elettorali, libri di testo, inventari da fare nelle scuolette di campagna. Un collega anziano commentava da dietro una porta ma ti pare giusto, appena diplomati, già prendono uno stipendio? Bernardino il bidello comunale alzava le spalle e pesando in mano la borsa della posta si chiedeva non proprio scherzando la consegno o la butto nel fiume?
Mobili di legno e moduli vecchi andavano al macero negli anni seguenti. Sempre circolari, registri e scartabelle negli uffici, ma anche macchine da scrivere elettriche con carrelli estensibili e testine rotanti che scoppiettavano su fogli e matrici destinate ai ciclostili. Velocità, graduatorie, scadenze. Altrove succedeva qualcosa di grave, in quegli anni: un’occhiata al giornale e vedevi gli anni di piombo anche a Salerno: un agguato delle BR, un giudice ucciso. Quel giorno c’erano commenti e sguardi alle finestre, ferme le macchine. Io studiavo la Costituzione di pomeriggio, i diritti sociali, e in quei codici trovavo ancora i fili della vita reale a cui avrei voluto partecipare, saltare la barricata della scrivania e dire le mie parole, perché le carte le giudicavo inutili o troppe.
Ma i pensieri, quelli erano inutili, di fronte a scadenze e circolari, e poi di fronte ai primi schermi neri con codici MS-DOS di computers grigi, comparsi con l’informatizzazione di fine anni ’90, stampanti ad ago, corsi di formazione pochi. Per fare spazio le macchine da scrivere e i ciclostili finivano su furgoni per andare al macero. Tutti dovevano dimenticare le penne, capire i pacchetti e manovrare quel coso che una signora anziana chiamava “mais” imprecando alla pensione ancora lontana.
Ormai digerito l’impatto agli inizi del 2000, ricordo che insieme agli screen più evoluti di Window i fornitori ci davano per gadget piccoli calcolatori manuali per il cambio lira-euro. Ma con quelli non si potevano certo fare i calcoli per i progetti PON del primo settennio, che facevano bestemmiare, aggiungendosi al lavoro ordinario già pesante. Una docente mi bollò di cattiveria, una volta che avevo sbottato per le sfilze infinite di esperti e tutor nominati anche solo per due ore totali. Oguno aveva un nipote o un amico a cui far fare esperienze e punti, così le mie tabelle excell diventano lenzuoli e si moltiplicavano mandati, contributi, rendiconti, ecc.
Ero ormai inchiodata dietro le quinte, da cui potevo solo osservare infiltrazioni dai soffitti, disagi e discriminazioni, regole difficili da rispettate, sentire lamentele interne. Per non dire del settennio successivo, quando ai PON, agli FSE seguivano i FESR perfino per interventi sugli edifici e non mi capacitavo perchè li dovesse attuare la scuola, senza competenze in materia. I supporti tecnici erano lontani e difficili. Salvavo nella mia mente solo i progetti Erasmus e quelli per i laboratori.
Un lavoro infinito e ansiogeno, che solo i miei colleghi possono capire, fatto di sigle e acronimi, di piattaforme digitali inventate da sadici, mi dicevo. Anche la qualifica era diventata una sigla, DSGA.
Ora con la distanza dell’età vedo tutto con occhi diversi, la burocrazia era un pachiderma per come studiavo sui libri di dirittto amministrativo, e le trasformazioni non potevano essere senza contraccolpi.
Ho incontrato però un un bidello giorni fa, uno che disegnava sempre bozzetti di quadri dietro il suo “bancariello” e a volte si sedeva a suonare solo al pianoforte dell’aula magna, mi ha voluto offrire un caffè con l’aria contenta, e mi ha detto che bei tempi allora, eh? Mo’ ‘cu sti PNRR s’a verono ancora cchiù sporca i colleghi vuost’!