Avvicinare le nuove generazioni al recupero della cultura locale significa avere maggiori possibilità che i giovani si affezionino alla loro terra e che non l’abbandonino. La difesa e il recupero delle tradizioni e della cultura spinge alla ricerca profonda della propria identità, delle proprie radici. E qual è la lingua delle nostre radici, se non quella lingua (spesso l’ unica) che parlavano i nostri antenati?
Avvicinarsi al territorio, riscoprirlo, e riscoprirne le potenzialità significa riscoprire l’identità storica. Se non conosciamo la lingua in cui la storia che abbiamo alle spalle è stata tramandata (spesso solo oralmente) non riusciremo ad ascoltare la vera voce di quella terra, e non comprendendo appieno le nostre origini non riusciremo a comprendere la nostra unicità e cosa ci contraddistingue. Conoscere la lingua del territorio, soprattutto per i più giovani significa non soltanto rafforzare la propria cultura, ma comprendere se stessi attraverso uno strumento d’indagine unico e potente.
I grandi scrittori del passato lo avevano capito. Nel 1951 Pier Paolo Pasolini nel testo critico “Dialetto e poesia popolare” scrisse una frase diventata celebre: “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà“. La purezza è custosita nel dialetto, sembra ammonirci il grande acrittore e critico Pasolini, che ha analizzato il dialetto friulano, romanesco, napoletano e abruzzese, che fu anche poeta dialettale, riconoscendo l’autenticità espressiva di questa lingua.
Il dialetto, per troppi decenni considerato quasi un’impoverimento, finalmente viene visto per ciò che è: un arricchimento. Gli intellettuali italiani lo hanno sempre detto. Gli italiani lo stanno scoprendo adesso.
Il dialetto, lingua locale che per secoli si è evoluta con le generazioni che lo hanno parlato, è depositario di tradizioni, modi di esprimersi, contenuti e cultura che in italiano non avrebbero lo stesso, pieno significato. L ‘autenticità espressiva è intraducibile. Senza le sfumature emozionali e comunicative del dialetto, la profondità culturale tipica, e unica, di un paese, perderebbe molti significati. La diversità linguistica che differenzia, spesso in maniera evidente, la parlata di paesi confinanti, è indice di tradizioni e storie differenti, uniche e irripetibili.
Molti giovani adulti a stento oggi comprendono il dialetto e di questo passo tra poco tempo rischiamo che patrimoni irriproducibili vengano persi. Patrimoni che non sono solo linguistici, perchè la lingua è il contenitore e al tempo stesso è la voce di un patrimonio e del suo intero popolo.
I dialetti hanno dignità, sono complessi, articolati, si sono evoluti nei secoli come le lingue ufficiali. I dialetti sono lingue non ufficiali, ma sono lingue. Più o meno note, più o meno parlate, ma lingue degne!
Chi oggi continua a denigrare il dialetto lo comprende, anche se non lo parla; di fatto conosce, da bilingue, l’italiano e il dialetto della propria terra d’origine. I nostri figli rischiano invece di non comprenderlo più, di non saper capire, quasi fosse una lingua straniera, la lingua dei propri nonni che, tra le vie del paese, ascolteranno, senza comprenderla, dai vicini di casa. E come si sentiranno? Stranieri in casa propria. Questo accade quando non si padroneggia, e neppure si comprende, la lingua della propria terra. Una situazione a cui non si pensa, ma concretamente possibile, e che per alcuni può già essere una realtà. Una triste realtà.
Per capire il vero valore del dialetto, patrimonio culturale immateriale che diamo per scontato e che spesso sminuiamo, basti pensare ai discendenti degli emigrati che, quando tornano nei paesi d’origine, cercano di recuperare la memoria perduta, di creare un filo col proprio passato; e lo fanno soprattutto attraverso le parole dialettali che provano in ogni modo a imparare, nel tentativo di riappropriarsi di un pezzo delle proprie radici.
In una contemporaneità cosmopolita e caotica che cerca di sradicarci, abbandonare il dialetto significa toglierci le radici da soli; e toglierle ai nostri figli.
