Non mi interessa prendere parte a dibattiti cinematografici e dire se questo sia o no il vero Sorrentino. Non mi interessa fare confronti e lanciarmi in analisi tecniche, così come non mi interessa scandagliare il film fotogramma per fotogramma.
A ogni commento che parlerà di dissertazioni stilistiche, tecniche et similia non risponderò; la stessa sorte avrà chi mi dirà che questo non è il vero Sorrentino (chi o che cosa è il vero Sorrentino? Siamo così presuntuosi da stabilire quale sia la vera cifra di un’altra persona che essenzialmente non conosciamo? Non possiamo nemmeno dire di conoscere noi stessi, sarebbe paradossale pensare di conoscere addirittura quale sia il vero e autentico Paolo Sorrentino).
“É stata la mano di Dio” è stato un film che mi ha devastata emotivamente ed era tempo che qualcosa non mi faceva così male: quando l’ho visto ero nel mio letto a Torino, ma per un attimo ho dimenticato le strade geometriche e squadrate della città sabauda e mi sono ritrovata coi piedi a mollo nel mare, con il subbuglio nel cuore e gli occhi che guardavano il Vesuvio.
“É stata la mano di Dio” è un film che parla di cadaveri. Il cadavere dei genitori di Sorrentino e il cadavere della città di Napoli. Io a Torino non faccio che pensare a questo cadavere, ricordarne la forma e l’odore, me lo tengo nelle narici perché ho il terrore di dimenticarlo.
Questo film parla di arance morse con la buccia, di genitori che fischiano, di lessico familiare. E poi ci sono munacielli, lampadari che si rompono in mille pezzi, zie che si spogliano nude sulla barca e offrono il loro corpo allo sguardo della gente, con una sensualità sguaiata che non è mai volgarità: è quello che fa Napoli, non fa che offrire la sua nudità e le sue cicatrici ai suoi passanti. Qualcuno la guarda schifato e ci sputa sopra, altri invece se ne innamorano.
Così come questo film, che sa essere pieno e vuoto, baroccheggiante e scarno verso la fine. E poi ci sono i genitori, che sono esseri umani pieni di difetti e che hanno il vizio di non avvisare mai quando muoiono. L’educazione dei genitori del Sud Italia si basa sul senso di colpa, sulla frase “Poi quando morirò te ne accorgerai”, ma nessuno prende mai sul serio queste parole, perché la morte spesso arriva come uno scherzo e non ci credi fin quando non vedi il corpo morto di chi ti ha messo al mondo.
E poi c’è “Marì, nun fa’ scherzi”, c’è un’ironia sfacciatamente napoletana e campana di scherzare con la morte fino a non prenderla nemmeno sul serio, ci sono cazzi disegnati sugli specchi, ambienti chic del Vomero e claustrofobia del centro storico. Ci sono gli urli delle madri tradite, le piccole apocalissi che si consumano in ogni famiglia, ci sono i genitori che ci deludono e che poi non si fanno più perdonare. Ci sono zie che schifano il mondo e che si mettono a mangiare mozzarelle, ci sono uomini appesi a testa in giù e contrabbandieri, c’è Maradona che però non si prende mai il posto da protagonista, perché di Maradona c’è soltanto la mano.
C’è tanto azzurro, l’azzurro di Napoli che non è mai limpido, ha sempre quella promessa di disgrazia che però puoi spazzare via con una risata o una pernacchia.
Non è un film da Oscar? Va bene, non sono io a giudicare, ma so solo che quando ho sentito la frase “Ce l’hai qualcosa da raccontare? E dimmell!” io ho sentito davvero o’ friddo ‘nguollo. Perché a Napoli non c’è semplicemente qualcosa da raccontare, Napoli è un universo a sé stante in cui il racconto e il romanzo sono ovunque, come tante malattie che ti infettano e da cui non puoi guarire. Napoli è narrazione, genere letterario, metaletteratura che ti azzanna con violenza.
Questo film è una lettera di amore e odio a Napoli, è il fujitevenne di Eduardo che però nasconde un’amara verità: Napoli non è una città, è una patologia, e non te ne vai mai da Napoli, perché quella città ti mangia da dentro e ti fa sentire orfana per il resto dei tuoi giorni. Ecco, questo film ti fa ridere del lutto e ti fa ridere del fatto di essere orfana, ti fa accettare che la realtà è scadente. Forse anche Napoli è scadente, ma non è mai mediocre: ed è per questo che alla fine di questo film, quando è partita “Napule è” di Pino Daniele, io ho dovuto fare uno sforzo per ricordarmi dov’ero. Perché tu non te ne vai mai da quella città, che è il teatro della tua sciagura ma anche del tuo paradiso, è tua madre ma è anche un animale selvatico e pericoloso a cui devi stare attenta, perché potrebbe spuntare o’ munaciello oppure un uomo che ha la faccia di San Gennaro.
Sorrentino è un narratore che riesce a incarnare la comicità vera del popolo campano, per cui la risata e il pianto sono cose serie e con uguale dignità. Inoltre, riesce a darci una lezione di scrittura: questo film è poesia, ha toni elegiaci e comici in egual misura, perché trasfigura in maniera magistrale la propria tragedia privata. Napoli è un luogo da abbandonare, semplicemente perché è l’altare in cui si è compiuto il sacrificio necessario a diventare grandi, e in questo ricorda la Procida della Morante, in cui le divinità dei genitori muoiono e rimane soltanto la realtà nuda.
“É stata la mano di Dio” è una vecchia signora con la pelliccia che apre le cosce per fare sesso con un adolescente, è un ragazzino che tira calci in un ospedale urlando “Non me li hanno fatti vedere”, è un ragazzo che preferisce Maradona a un rapporto sessuale.
E la chiave del film è tutta nell’abbandono: quando pensi di aver abbandonato la città, scopri che lei invece non ti ha mai abbandonato perché ti terrà sempre stretto nella morsa delle sue gambe, con una gelosia egoista che solo Napoli può dimostrare.
Ma allo stesso tempo, nel suo egoismo infinito, Napoli sarà sempre pronta anche a farsi docile e a dirti “Io voglio pensa’ anche un po’ alla felicità, Fabié. Tu no?”