Qualche giorno fa una rivista di psicologia ha pubblicato un articolo con un’immagine che mi ha molto colpita: un disegno stilizzato ritraeva un uomo e una donna nel difficile tentativo di sostenersi reciprocamente, per evitare di precipitare entrambi in un burrone. I soggetti raffigurati si stringevano forte la mano ma nessuno dei due, dalla posizione in cui si trovava, poteva scorgere l’ulteriore difficoltà che l’altro stava contemporaneamente affrontando: l’uomo era oppresso dal peso di un macigno, la donna sofferente per la ferita di un morso di serpente. La mia interpretazione personale dell’illustrazione è che, anche quando entrambi i soggetti coinvolti in un rapporto (affettivo, professionale, sociale) sono predisposti a relazionarsi in modo costruttivo nei confronti dell’altro, non sempre riescono a percepire gli stati d’animo che l’altra persona sta provando. Può, così, accadere che uno dei due avverta un coinvolgimento inadeguato da parte dell’altro (nella partecipazione emotiva di una relazione, nello svolgimento di un incarico lavorativo, nell’apporto a un progetto condiviso). La rappresentazione grafica mi ha suggerito che non bisogna limitarsi a una valutazione affrettata della prestazione dell’altro, ma che si dovrebbe cercare di considerare, piuttosto, quali siano le sue reali possibilità, rapportate al determinato momento che sta vivendo. Tale approfondimento consentirebbe di capire che ciò che può sembrare un contributo inidoneo (per un partner, un collega, un amico) può, invece, rappresentare per lui un notevole risultato, ottenuto con il suo massimo sforzo. La comunicazione è il solo strumento che consente di andare oltre alla propria prospettiva (necessariamente parziale e limitata) per comprendere la reale condizione dell’altro. Ci si può esprimere mediante le parole, ma anche attraverso uno sguardo, un gesto, un abbraccio. La possibilità di trasmettere le proprie emozioni non è certo confinata nella comunicazione verbale. Basti pensare a quanto i bambini sanno comunicare di sé, prima ancora di aver imparato a parlare. Durante la mia esperienza in Senegal mi sono trovata più volte a giocare con bambini che non parlavano la mia stessa lingua, ma non ho mai riscontrato alcuna difficoltà nella comprensione reciproca. Così come sono riuscita agevolmente a concordare, organizzare e realizzare attività didattiche, ludiche e ricreative destinate ai bambini, grazie a Celine, la loro meravigliosa maestra, che ha sempre compreso (e persino anticipato) le mie proposte, sebbene comunicassimo in una forma piuttosto buffa di francese, misto a italiano e wolof. Credo che una comunicazione efficace non dipenda soltanto dalla bocca di chi si esprime, ma anche (e forse soprattutto) dall’orecchio di chi ascolta. Una citazione della scrittrice britannica Joanne Rowling che mi piace molto ricordare è: “Differenze di abitudini e linguaggi non contano se i nostri intenti sono identici e i nostri cuori aperti”. Questa riflessione vale, secondo me, sia per le persone con le quali instauriamo relazioni più intime, sia per quelle che incontriamo per la prima volta sulla nostra strada. Così pure l’espressione wolof «degg na»: “io capisco te, io ti comprendo”, sintetizza come, prima di pretendere di essere capiti, si dovrebbe cercare di comprendere l’interlocutore. Perché “comunicare” significa, innanzitutto, aprirsi, avvicinarsi, predisporsi verso gli altri col reale intento di ascoltare.
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