Federico Leonardo Lucia, il popolarissimo Fedez, ha ricevuto una sagace lezione di stile da una suora che lo ha invitato a pensare prima di parlare e a studiare prima di giudicare. Far riferimento alla missiva della religiosa potrebbe aiutare a ritenere conclusa la diatriba animata dall’intervento della diplomazia pontificia circa la proposta di legge Zan. Tuttavia, mi permetto di fare una considerazione di metodo per aiutare i fedeli della mia parrocchia ad orientarsi e fare alcune necessarie distinzioni tra il concetto di forma e di sostanza e circa le responsabilità del cristiano e del cittadino. Ovviamente tutti attendiamo che gli organi curiali diocesani ed il magistero vescovile decidano di intervenire per tranquillizzare chi teme ritorsioni, in particolare catechisti qualora dovessero esprimersi in materia non condividendo il contenuto del testo in approvazione.
Rispetto alla sostanza del problema il cristiano può ritenere superflua la legge; infatti, egli è chiamato a rispettare un codice ben più cogente, sancito dalla prassi evangelica, particolarmente severa se si prospetta la condanna alla geenna per chi ha l’ardire di chiamare “testa vuota senza cervello” o “pazzo rinnegato” un proprio fratello! (Matteo 5,21-22). Perciò, ogni atteggiamento fobico va condannato per qualsiasi motivo, anche tutti gli offensivi riferimenti alle persone che dovrebbero “beneficiare” del DdL Zan. Er i cristiani sono tutti fratelli verso i quali riservare il comportamento che Gesù descrive nelle parabole con stile semplice, ma accessibile a tutti, prerogativa che non appare evidente dalla lettura del testo proposto.
Il vangelo della scorso domenica sollecita una riflessione che potrebbe tranquillizzare tutti: i cristiani, che dovrebbero specchiarsi nel comportamento del loro maestro, e i non cristiani, i quali non avrebbero motivo di temere un pruriginoso ricorso a commenti e parole inappropriate da parte di chi si iscrive alla religione dell’amore. Il messaggio che si desume dalla liturgia della Parola è un invito alla speranza per chi è disposto a tentare ogni cosa per ridare senso alla propria vita precipitata nell’angoscia. Il pianto, espressione d’impotente ribellione per la sconfitta, accentua le illusioni di chi ritiene manifestazione di saggezza accettare passivamente l’irreparabile quando tutto sembra perduto. Gesù trasmette invece sollecitazioni positive, invita ad avere fiducia in se stessi, atteggiamento indispensabile per vedere maturare la propria personalità. E’ la spinta interiore per progredire, rafforzare la fiducia nelle capacità individuali, aprirsi alla prospettiva di giudicare in modo positivo gli altri.
Nel racconto evangelico di Marco a sperimentare ciò è una donna, che sollecita un briciolo di amore per uscire da un doloroso ed infame isolamento. Dodici anni d’interminabile attesa non hanno cancellato in lei il bisogno di uno sguardo empatico. E’ la dimensione psicologica di questa malata, che ha speso risorse e speranze. Le rimane un’ultima opportunità, anche se il gesto che ha deciso di compiere rischia di rivelare a tutti la propria riprovevole condizione. Ma la fama di Gesù sollecita il suo cuore disperato. Il Maestro pratica una pedagogia che non si limita a manifestare a tutti prossimità, procede al riconoscimento personale dell’interlocutrice per sollecitarne la fede; egli sa leggere nel cuore e comprende la convinta sincerità di un’azione frutto di profonda fede. Perciò, in lui non ci sono reazioni stizzite, anzi apprezza la testimonianza della donna. L’emorroissa è in angoscia; le costose cure sono risultate inutili, anzi è peggiorata ricorrendo alle cure della superstiziosa medicina popolare; come ultima speranza le rimane la virtù salutare di Gesù della quale ritiene di poter beneficiare col semplice contatto della veste.
L’energia positiva del Maestro può apportare benefici effetti a un caso disperato, una malattia che per la Legge rende impura (Levitico 15,25). Fisicamente malata, ella sta decisamente peggiorando e compie un gesto scorretto perché nelle sue condizioni avrebbe dovuto evitare ogni contatto, invece s’intrufola nella folla per tentare un ultimo rimedio alla sua disperata condizione. Riesce ad arrivare fino a lui non notata, supera il rischio di essere riconosciuta e, di conseguenza, allontanata. L’evangelista con brevissimi tratti fa conoscere il suo vissuto e le sue aspettative: ha fede, quindi sarà salvata perché tocca Yeshoua. Non può essere altrimenti, infatti il nome del Maestro significa appunto il Signore salva. Il flusso si blocca, cessa ogni dolore, la donna si rende conto che è guarita; ma la sensazione di gioia si blocca nel suo cuore per l’immediata reazione di Gesù che chiede: Chi ha toccato le mie vesti?
Prima che lei possa spiegare, i discepoli s’intromettono con una osservazione che lascia indifferente Gesù, il quale non si cura di parole che possono suonare ironiche ed irrispettose. Gira gli occhi in cerca della donna. La poverina è sbigottita, si sente in colpa perché nella sua disperante situazione non ha osservato le prescrizioni relative alla purità legale; ha osato toccarlo rendendolo impuro (Levitico 15, 27). Non le rimane che confessare la verità. Ma Gesù risponde senza note di biasimo, anzi usa l’appellativo figlia per manifestarle benevolenza; la loda per la fede e le augura pace rassicurando che la guarigione è definitiva. Per la prassi la donna avrebbe dovuto passare dal sacerdote e offrire due tortore o piccioni per il rito di espiazione (Levitico 15,28-30), ma in questo caso è sufficiente l’autorità del Maestro. La donna è guarita, come riassume Gesù nel saluto finale: Figlia, la tua fede ti ha salvata.
Interessante riflettere sul termine figlia; per l’evangelista Gesù esprime tutta la sua paterna liberalità nell’elogiare la fede della donna, altro che insulto e condanna. Il peso della convenzione contro la femminilità viene eliminato quando Cristo si fa toccare per dimostrare che la barriera creata dagli uomini è infranta; egli la elimina parlando con lei in pubblico. In situazioni disperate la fede non deve essere manifestata come semplice convinzione intellettuale, ma con una decisa azione di sinergica empatia.
La riflessione proposta all’inizio invita a considerare l’operato del cittadino in riferimento non al factum est di una legge già regolarmente approvata, ma ad un disegna di legge in fieri, cioè ancora oggetto di dibattito. Chiedere di prestare attenzione ed, eventualmente, migliorare un testo in discussione è una legittima prerogativa di ogni italiano, cristiano o no. Del resto, dai commenti letti in questi giorni pare che molti, anche a sinistra, sollecitino una riscrittura del testo per renderlo più intellegibile ed esaltare il pieno le prerogative costituzionali di tutti. Criticità sono state rilevate da molti giuristi. Ad esempio, Mirabelli e Flick intravedono dei rischi nell’interpretazione dell’eventuale reato di opinione e sollecitano un’armonizzazione con le riconosciute prerogative circa la libertà dell’insegnamento.
Rispetto a queste condivisibili preoccupazioni pare che in questa caldissima settimana si è voluto far scoppiare una tempesta in un bicchiere d’acqua, probabilmente per motivi reconditi ad opera di chi manovra i fili del vivere civile nel nostro paese: poteri forti, lobby culturali, dogmatici ideologi, occulti mestatori pronti ad insidiare equilibri ritenuti poco favorevoli.
Il primo ministro si è trincerato dietro la lapalissiana affermazione, giustamente esaltata da tutti pur se semplicistica nella sua ovvietà, delle garanzie assicurate dallo Stato laico. Siamo tutti felici di vivere in un contesto siffatto, difeso ed avallato da una vigile e rasserenante Costituzione. Ma appare evidente il vulnus per la improvvida nota vaticana. Il gesto di fatto chiama in causa un altro Stato; di conseguenza, la foglia di fico alla quale ha fatto riferimento il primo ministro – cioè che sarebbe un problema del parlamento e non del governo – non copre tutte le “vergogne” che emergono considerando con prospettiva critica la scellerata vicenda. Infatti, ad una nota diplomatica presentata da un Stato straniero non risponde il parlamento, ma il governo. Il cardinale Parolin ha cercato una via di uscita confermando la bontà dello Stato laico e, a giustificazione del passo diplomatico del suo sottoposto, ha aggiunto che si trattava di un “documento interno” che non doveva essere pubblicato. Ma proprio questo tentativo di giustificazione fa sorgere ulteriori perplessità. Infatti, si potrebbe ritenere che si sia trattato di un ennesimo tentativo di imbarazzare l’attuale orientamento della politica pontificia, ulteriori colpi di coda di chi non si riconosce nella gestione “francescana” del papato e rimpiange vecchie impostazioni e proficue egemonie personali. La sensazione potrebbe trovare conferma per i commenti di eminenti esponenti della gerarchia cattolica italiana e di alcuni funzionari di secondo piano della curia, sherpa di traballanti cordate, potenti negli anni dell’egemonia ruiniana. Ma anche all’interno del mondo politico italiano la vicenda può determinare inattesi risvolti per l’autogol della diplomazia vaticana; infatti la risposta del governo ha dato fiato alla boccheggiante destra politico- culturale, mentre continua ad affilare le armi chi intende dare concretezza ad una subdola strategia anticoncordataria.
lr