di Giuseppe Liuccio Questa che segue è la cronaca della seconda parte del viaggio “letterario” sull’onda delle emozioni attraverso alcuni dei paesi del Cilento interno con destinazione Vallo della Lucania, per un incontro con docenti ed alunni dello storico Liceo Classico “Parmenide”, tenuto sabato 5 giugno scorso. Era un terrazzo di luce, la Civitella, spalancato sui declivi a caracollo nella valle del Badolato arabescati di castelli, chiese e case con in distanza il Gelbison che cercava e perforava cielo con un filo di croce, da un lato, e l’infinto del mare “greco” di Velia con la memoria dei miti e della Grande Storia, dall’altro. Eravamo in largo anticipo sulla tabella di marcia e decidemmo di concederci una pausa nel profumato regno del silenzio in una mattinata festosa e fastosa di primavera. M’era compagno gradito l’amico Antonio Trotta, docente di inglese, cilentano doc di Magliano. Sulle colline lo scialo delle ginestre che “ncannaccavano” d’oro effimero pascoli e seminativi incolti. A margine di strada i cardi vanitosi troneggiavano sui gambi, ostentando il velluto viola del fiore a fuoriuscita dal carcere difeso dalle spade/cilicio e che, tenero come il primo bacio della ragazza in amore, si offriva in piena libertà a lungo sospirata. I papaveri rosso/sangue ventilavano semi e profumi. Il fasto/scialo della primavera generosa di colori, profumi e fiori attutì solo in parte lo spreco di una rotatoria a circa 1.000 metri di altitudine, dove, nella nostra circa mezzora di sosta l’unico mezzo di locomozione fu il trattore di un taglialegna che lacerava il silenzio con rumore assordante di ferraglie per gli avvallamenti di una carrareccia tra le proteste di un cane turbato per la invasione e chiamato all’ordine dal pastore. La rotatoria fungeva da “spartitraffico per il gregge”. Per un attimo pensai al brigante Giuseppe Tardio che, generoso e protettivo con i deboli e gli indifesi, fu spietato e vendicativo con i prepotenti e gli arroganti signorotti del territorio. Oggi i briganti non ci sono più, ma i signorotti cacicchi di periferia sono aumentati di numero e governano e sgovernano, purtroppo, con l’uso e l’abuso arrogante, impudente ed impunito del potere. La rabbia si stempera nella bellezza profumata della primavera, mentre la macchina rotola giù per i tornanti ridenti di coltivi. Intanto, come mi capita spesso, con una operazione di transfert di memoria, sto facendo un percorso in discesa che feci qualche anno fa in salita. E mi abbandono ai ricordi. C’era, allora, la luna piena ai principi di dicembre. Occhieggiava nel cielo limpido dall’alto del Gelbison. E i paesi dell’interno, che rotolavano dalle colline verso la pianura in una con le acque del Badolato e dei torrenti/affluenti si vestivano di un alone di misteriosa bellezza nel chiarore della sera. Mi avevo lasciato alle spalle Vallo con la sua aria di città già nelle luminarie di Natale con le vetrine dei negozi a cattura di desideri di coppie giovani e meno giovani, a “struscio” di chiacchiere di vanagloria tra piazza e negozi. Angellara mi sembrò più bella ed accogliente nella grazia delle ville civettuole a margine di strada con i recinti dei giardini ben tenuti. Novi era ricamo di luci con castello e chiese a rievocare il suo nobile passato di Stato potente, ad esaltare il rifugio sicuro degli Eleati, gloria di artisti nelle tele delle chiese, feudo di Longobardi, e non solo, rivolta di contadini a fame di terre incolte, furori rivoluzionari di eroi a reclamare libertà e giustizia sociale. Nella vallata umbratile adagiata tra il verde della macchia pedemontana e dei coltivi e le acque della Diga del Carmine, Cannalonga mi batteva alle porte della mente e del cuore con la storia del feudo dei Mogrovejo, ancora viva tra le mura di pietra del Palazzo massiccio, con la testimonianza festosa della “Frecagnola”, che in una fiera accorsata vantava, e vanta ancora, il trionfo della “capracotta”, una specialità gastronomica unica ed irripetibile altrove, con la pazienza e sapienza degli artigiani ad intagliare ed incavare radiche di erica per ricavarne pipe a “sfizio” bavoso di fumatori incalliti. Erano belle le campagne delle colline, con gli uliveti a carezza di brezza ed i vigneti a filari geometrici, che facevano e fanno di Pellare e Moio il regno di vino di qualità. È dei primi del 1600 una preziosa testimonianza, gelosamente ed orgogliosamente conservata nel Museo della Civiltà Contadina, a dimostrazione che la Casa Reale di Napoli riforniva le proprie cantine con i vini prodotti nelle assolate colline di queste contrade. Quando vigneti ed uliveti non assicurarono più una resa in grado di garantire una vita dignitosa per sé e per i propri figli, i contadini, con lacerante nostalgia, lasciarono piazza, chiesa, campanile e Civitella e si avventurarono sulle rotte transoceaniche a correre l’avventura del lavoro e della fortuna nelle Americhe, per ritornare quasi ogni anno in occasione della Festa di San Bartolomeo, quando il paese si caricava di devozione e di orgoglio di tradizione, che esplodeva anche negli addobbi delle luminarie e nelle rose multicolori della granate a perforazione di cielo. La tradizione si rinnova sempre e la festa di San Bartolomeo continua ad essere testimonianza di fede e di vissuto collettivo. La Civitella incombe sull’abitato e la Madonna, ridente nel suo busto di malta, protegge case e campagne ad arredo di colline a scivolo di vallata. Lì sulla cima si materializzano belle pagine di storia religiosa, civile e sociale del territorio: Vi si venera una delle Sette Madonne/Sette Sorelle, che un transfert di ritualità dal paganesimo al cristianesimo rinnovano il culto della Magna Mater a propiziazione di fecondità. E, nella semplicità poetica dei riti, “lo iuorno re le cruci”, ad inizio di primavera, consente lo strazio dei giovani virgulti del castagno, caricandoli di straordinario simbolismo per proteggere le case dall’influenza degli spiriti del male e propiziare abbondanza di raccolti nelle campagne. Ed il pozzo dell’acqua lustrale si gonfia di potere di purificazione, così come il menhir del “cantone re lo riavolo” esalta il valore totemico della pietra contro le influenze negative del Maligno. Tra i folti castagneti, a corona dello spiazzo del santuario, i macigni squadrati di uno straordinario reperto archeologico, purtroppo non opportunamente conosciuto e valorizzato, testimoniano la presenza di un “frurion”, che fu “castrum/postazione”, avamposto dei Velini a tutela dei traffici verso l’interno e a difesa dei Lucani guerrieri, che cercavano uno sbocco a mare. Il Museo della Civiltà Contadina, messo su negli anni con pazienza di ricercatore e sapienza di studioso dal compianto Amico Peppino Stifano, è un gioiello, dove spesso, nella bella stagione, le scolaresche dell’intero territorio, ripercorrono la storia etno antropologica del Cilento, scoprendo con orgoglio come eravamo e da dove veniamo. Nelle varie sezioni c’è materializzata con documenti ed attrezzi di lavoro, vita e morte, feste, matrimoni e funerali, l’alternarsi delle stagioni nei ritmi delle semine e dei raccolti, una straordinaria pagina di storia, che dovrebbe essere messa in rete, in una con gli altri musei cilentani, perché giovani e meno giovani riscoprano ed esaltino orgoglio di identità e di appartenenza. Continuo ad inseguire i miei sogni di utopia per il futuro della mia terra, mentre la macchina arranca sugli ultimi tornanti della Civitella. Alle spalle c’è sempre la festa di luci dei paesi nel chiarore della luna piena. Intanto sulla destra della vallata, Campora è una covata di case, lucciole ondeggianti tra il verde di cerri, ontani e querce. Più in là Laurino festona la collina. L’ultimo sbuffo della macchina sulla salita della Retara e tra il fogliame ramato dei castagneti fanno capolino gli abitati di Stio sull’insellatura della collina e di Magliano a scalata di montagna. Il trasfert di memoria mi ha materializzato immagini della mia terra, ma intanto mi accoglie Vallo, la città dei miei primi studi, dove con un tonfo di commozione al cuore entro dopo anni in quello che fu anche il Liceo dei miei studi e dove narrerò in versi, nella rasposa sonorità del dialetto, ai giovani amici memorie, ansie, dolori, tormenti, passato, presente e futuro di quella che è stata, è e sarà “la terra mia, terra r’amore, terra re stienti, re sururi e chianti, (dove) la gente è de boncore/ e nun fa nienti ca se la so scurdata puro li santi”, e alla quale io mi sono sforzato di dare dignità letteraria, lusingato se in minima parte ci sono riuscito con il supporto prezioso del mio editore storico, Peppino Galzerano, che mi anticipa promessa di sosta/pranzo nel verde delle colline di Salento, che mi consentirà di narrare un’altra pagina del mio meraviglioso Cilento.
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