In un mondo tenuto insieme da un dio medialico paranoico tutto ciò che è esperienza del
vivere diviene un’unica, banale realtà in cui identità non significa, affatto, essere diversi.
Forse la danza ebbra di Dioniso o il trascendente atto di trasformazione del cibo in carne e del
vino in sangue (e viceversa) della mistica messianica cristiana hanno ancora un significato
associabile alla parola libertà. Sostiene Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della Follia”
che tra le numerose lodi di Bacco la principale è ritenuta a ragione quella che lo esalta perché
dissolve le sollecitudini dell’animo, seppur per poco tempo perché sfumata l’ebbrezza
tornano tutte le preoccupazioni. E, d’altra parte, il cibo nel suo lento modificare i livelli della
percezione, nell’aprire le porte fra i diversi stati della cognizione ridefinisce i paradigmi del
sentire laddove, nella stessa etica del videodrome, l’alterazione del senso diviene
mutazione ancestrale del rapporto uomo/natura per finire nella relazione uomo/natura/estensione
bio-elettronica.
Nell’era della falsificazione assoluta, della trasformazione continua del sistema cognitivo ed
immaginifico esiste ancora lo spazio della condivisione dei sensi, in questo caso per quanto
strano possa sembrare, di tutti i cinque sensi, nel rapporto quasi archetipico con la sostanza
“cibo”. Per tornare alla frase di Philip Dick che dice: non importa se la tua memoria sia reale
o artificiale, nel momento in cui ricordi sei umano, allora può il cyborg ricordare la memoria
del cibo? Probabilmente nei cyborg “difettosi” (almeno per la terrificante logica della
omologazione globale) proprio il rapporto ancestrale che abbiamo con la percezione del
bisogno istintuale del cibo rappresenta ancora uno spazio di red zone, di isola liberata in cui
ogni controllo sfugge alla logica ingabbiatoria per essere presupposto artistico del Senso,
Non è casuale che Nietzsche stabilisse una stretta relazione fra l’ebbrezza ed il fare ed il
contemplare dell’arte. Tutte le specie di ebbrezza, allora, sono condizione indispensabili per
concedere all’artista il sublime atto creativo laddove il microcosmo del pensiero creativo
diviene impellente volontà creatrice. Va da se che se l’ebbrezza apollinea (e, quindi,
visionaria) appartiene per eccellenza all’artista, quella dionisiaca eccita e potenzia l’intero
stato degli affetti per cui tutta la forza irruente dell’umano si trasfigura nella sua rappresentazione
estroflessa.
Ora le videoinstallazioni sequenziali di Barbara Rossi Prudente sono questo estroflesso
paesaggio; un inner space che manifesta il rapporto con un luogo, quello del Mediterraneo e
con una percezione, quella del cibo, strettamente legato alla sfera emozionale dell’esistente.
Tre stanze che diventano rapporti assiomatici con un modo di vivere la relazione con il cibo
che non può prescindere dalle emozioni del ricordo e dalla necessità del piacere, dell’appagamento
dei sensi. L’operazione di traslazione diventa un riparametrare, attraverso gli occhi,
di un senso che appartiene, in genere, alla bocca ed al naso. E’ una immersione totale in una
cultura millenaria vista attraverso le sensazioni fortemente emozionali che attraversano,
come schegge, ogni frammento dei mondi altri che Barbara Rossi Prudente riproduce; così
come la forza elementale delle tre stanze accompagna l’osservatore verso il viaggio della sua
naturale attrazione verso la propria identità attraverso la conservazione di un modo
millenario di mangiare con il senso del gusto, ovvero la riscoperta del rapporto con la Madre
Terra.
Ma il cibo, in queste installazioni visuali, è anche metafora; è un riferimento all’intera
ritualità che ad esso si associa; duemila e più anni fa, un uomo/dio stabilisce (per l’eternità,
per i credenti) la relazione fra il suo corpo ed il cibo. La trasmutazione dell’elemento diviene
ancor più di una lettura simbolico/liturgica, è miracolo quotidiano, che, nel suo continuo
millenario accadere stabilisce la relazione qualitativa e non quantitativa che l’uomo ha con il
divino. Il cibo (diversificato attraverso le stanze) è la chiave per il cannibalico rito trascendente
della “divorazione” del Dio/Uomo, nell’assimilazione tout-court della divinità all’interno
del corpo dell’uomo; corpo in corpo, sangue nel sangue. Tutto questo abbatte il problema del
senso, quella attività del sé, della coscienza che subisce la continua ossessione della
direzionalità del tempo, di quel rapporto con la morte che solo, appunto, il corpo nel corpo
riesce a risolvere. Il cibo è, sostanzialmente, un algoritmo metaforico/simbolico di Dio.
E, allora, per ritornare alla nuova condizione dell’umano (quell’essere che, nonostante le sue
estensioni tecnotroniche ha ancora dentro di se il concetto, del tutto inutile eppure
necessario, di percepire il cibo come gusto, una delle prime manifestazioni che distingue
l’umano dal rapporto puramente animale con la natura) è ancora necessario il senso di
meraviglia, il momento in cui i sensi partecipano all’allargamento della percezione del
mondo? Perché no?
Perché il cibo, nella nostra cultura, non ha soltanto i colori del pane, dei formaggi, del pesce,
delle olive ma, piuttosto, l’intera sfumatura dell’arcobaleno del cuore.