Nel cuore del Cilento, del Vallo di Diano e degli Alburni, tra comunità silenziose e borghi che raccontano storie antiche, si sta consumando un lento ma costante svuotamento dell’anima dei territori.
Le aree interne si svuotano, le scuole chiudono, le saracinesche restano abbassate.
I giovani, con le valigie cariche di sogni e competenze, lasciano i propri paesi perché non vedono un futuro possibile.
Eppure, mai come in questi anni, le risorse economiche pubbliche sono arrivate a fiumi: fondi europei, statali, regionali.
Milioni di euro promessi per lo sviluppo, per la coesione territoriale, per il contrasto allo spopolamento.
Ma allora viene da chiedersi: perché nulla è cambiato davvero?
La verità è amara.
Questi finanziamenti, nella maggior parte dei casi, non hanno generato sviluppo vero.
Hanno alimentato spesa, progetti su carta, report statistici, ma non hanno creato lavoro, imprese, comunità resilienti.
La colpa non è solo della burocrazia.
È anche, e soprattutto, di una visione politica miope che si accontenta di leggere la fredda statistica dei milioni di euro spesi, invece di interrogarsi seriamente sui risultati concreti raggiunti.
La retorica dei grandi numeri non basta più.
Per ogni euro investito si deve chiedere: quanti giovani hanno scelto di restare perché hanno visto una prospettiva reale di crescita?
Quanti territori hanno realmente tratto beneficio duraturo?
Quante nuove imprese sono nate e resistono?
I politici devono promettere meno e concretizzare di più.
Devono trasformare i finanziamenti in risultati tangibili, in posti di lavoro, in servizi, in infrastrutture utili.
Devono smontare il mito della spesa come sinonimo di successo e cominciare a guardare alla qualità e all’impatto reale degli interventi.
Perché non è il volume di denaro speso a cambiare il destino di un territorio, ma la sua capacità di trasformarsi in opportunità concrete.
E oggi, troppe risorse sono finite in opere inutili, in progettazioni mai partite, in sprechi che non hanno prodotto alcuna trasformazione economica.
Una delle cause principali di questa stagnazione è la cronica assenza di infrastrutture moderne e funzionali.
Strade promesse e mai realizzate nella loro interezza – come la Fondovalle Calore, la Strada del Parco e i collegamenti tra le aree interne e le grandi arterie – restano sogni rinchiusi nei piani pluriennali di sviluppo, nelle cartelline degli enti locali, nei comunicati pre-elettorali.
Intanto, interi territori restano isolati, tagliati fuori dai circuiti dello sviluppo e del turismo, prigionieri di una marginalità che la politica non ha mai voluto davvero superare.
Senza una viabilità efficiente, poche imprese investiranno in questi territori e pochi giovani troveranno la motivazione per restare e costruire il proprio futuro.
È un dato di fatto, non un’opinione.
Eppure, da decenni, si continua a pianificare senza costruire, a promettere senza mantenere.
Ma c’è ancora una strada possibile: puntare tutto sui giovani, formandoli per creare imprese nei settori chiave del territorio: agricoltura sostenibile, turismo esperienziale, artigianato digitale e energie rinnovabili.
A questa visione va aggiunta con decisione la promozione della nascita di nuove aziende tecnologiche, capaci di innovare, digitalizzare e connettere le aree interne con il mondo.
Dallo sviluppo software alle tecnologie per valorizzare il patrimonio culturale, dai sensori per l’agricoltura di precisione alla creazione di contenuti per il turismo digitale, i borghi possono diventare laboratori diffusi di innovazione.
Serve accompagnare i giovani con contributi a fondo perduto, tutoraggio, spazi pubblici recuperati e trasformati in incubatori di idee.
È fondamentale creare ecosistemi che favoriscano la nascita di start-up e imprese digitali locali, capaci di offrire servizi non solo al territorio, ma all’intero mercato nazionale e internazionale.
Un giovane che resta e crea valore è il seme di una rinascita che si diffonde. Il suo esempio può ispirare altri.
È così che si costruisce una spirale di imitazione positiva, capace di rigenerare interi borghi, creando lavoro, cultura, servizi, senso di comunità.
La politica deve finalmente avere il coraggio di misurare il proprio operato non con i milioni impegnati, ma con le vite cambiate, con le imprese nate, con i giovani che hanno scelto di restare perché hanno visto una prospettiva reale di crescita.
E soprattutto deve iniziare a rendere conto degli sprechi: quanti soldi sono finiti in progettazioni inutili? In eventi senza ricadute? In infrastrutture mai terminate?
Serve una rivoluzione di metodo.
Serve trasparenza nei cronoprogrammi, partecipazione civica, controlli reali sugli effetti delle politiche.
Serve una visione che non rincorra l’emergenza, ma costruisca futuro.
E, prima di tutto, serve una classe politica che abbia il coraggio di promettere meno e mantenere di più, costruendo fiducia e risultati, non illusioni.
Restare in un borgo delle aree interne non dev’essere più una condanna, ma una scelta libera e piena di significato.
Lo sarà solo se le istituzioni avranno il coraggio di superare l’autoreferenzialità, di guardare in faccia la realtà e costruire politiche vere, misurabili, concrete.
Non c’è sviluppo senza lavoro.
Non c’è lavoro senza imprese.
E non ci sono imprese senza infrastrutture, formazione e fiducia.
È da qui che dobbiamo ripartire, mettendo al centro le persone, non le cifre.
Perché ogni giovane che resta è una speranza accesa.
Ogni impresa che nasce è una scommessa vinta.
E ogni speranza accesa è una terra che non muore.